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Cosa ci ha lasciato la bolla di Orlando? – di Daniele Leuzzi

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L’esperimento di Adam Silver ha dato i suoi frutti. L’NBA a Disneyworld ha vinto contro il coronavirus e non solo…

Dal 30 settembre 2019 all’11 ottobre 2020 sono passati 377 giorni. Più di un anno per terminare la stagione NBA più lunga e complessa di sempre. La lega amministrata da Adam Silver è andata incontro a crisi internazionali, ha dovuto far fronte a perdite importanti (David Stern e Kobe Bryant), ha affrontato l’ondata di ingiustizia sociale e razziale che ha colpito gli Stati Uniti, finendo per vincere la sua personale battaglia contro la pandemia, che tutt’ora attanaglia gran parte della popolazione mondiale. Il tutto nella famosa “Bolla di Orlando”.

NON UNA BOLLA DI SAPONE

L’11 marzo il commisioner decide che il campionato non può proseguire, visto che i casi di Covid-19 aumentano sia nel Paese che all’interno delle squadre. La pallacanestro americana decide di fermarsi, non si sa ancora per quanto tempo; la situazione è in continua evoluzione e non resta che aspettare. In America la diffusione del virus non sembra arrestare la sua ascesa, ma Silver continua a lavorare per lo sviluppo di un progetto che potrebbe far tornare i giocatori sul parquet. Entra in contatto con i proprietari delle franchigie prima e l’associazione dei giocatori poi: l’idea è quella di riprendere all’interno di uno spazio isolato, asettico e controllato. Dopo diversi mesi di lavoro, chiamate, riunioni virtuali, questionari, regolamenti e accordi, l’NBA riprende a DisneyWorld.

Il sistema organizzato dalla lega, per cui sono stati investiti 180mln di dollari, prevede 22 squadre con un massimo di 37 persone ciascuna tra giocatori e staff. L’NBA in seguito (dopo il primo turno dei PO) ha concesso l’entrata a 3 componenti delle famiglie dei giocatori (250 persone), mentre in un terzo momento – durante le finali di conference – il permesso è stato esteso anche alle famiglie degli allenatori. Le franchigie hanno alloggiato in 3 hotel, così come 3 sono state le arene in cui sono state disputate le partite di regular season e i playoffs. Il rigido protocollo, che ha previsto permessi eccezionali, controlli attraverso un sistema di videocamere, anelli per monitorare l’attività fisica, orologi per l’apertura automatica delle porte e una hotline per segnalare le violazioni, ha funzionato alla perfezione. Tra barbieri, chef personali, aree dedicate al relax e al tempo libero dei giocatori, con un pubblico virtuale e panchine distanziate con posti nominativi, la bolla non si è dissolta. All’inizio dell’esperimento, il 31 luglio, si registravano zero casi all’interno del campus di Orlando, dopo 100 giorni e 172 partite, Silver ha vinto la sua battaglia personale contro questa malattia. All’interno di Disneyworld nessun giocatore è stato contagiato.

TRA CRISI SANITARIA E CRISI SOCIALE

Silver ha comunque avuto le sue gatte da pelare. Due episodi hanno infatti rischiato di compromettere la competizione. Il Covid-19 non è l’unico problema che gli USA stanno affrontando: gli omicidi di gente di colore da parte dei poliziotti hanno infatti infiammato le strade di diverse città americane, dando vita al movimento “Black Lives Matter”. Gli atleti si sono sentiti chiamati in causa e tra la lega e l’NBPA è stato firmato un documento che ha permesso ai giocatori di far sentire la loro voce all’interno di quest’ultima parte di campionato.

La situazione ha vacillato quando dei poliziotti hanno inferto sette colpi di pistola nella schiena di Jacob Blake. Milwaukee Bucks, Orlando Magic, Portland Trai Blazers e Los Angeles Lakers hanno deciso di non giocare le partite in programma per quella sera, mandando un messaggio forte e chiaro. Silver, insieme all’associazione dei giocatori, ha fatto tutto il possibile per dare voce ai pensieri, le riflessioni e le idee dei protagonisti – forse anche per questo motivo queste sono state le Finals meno seguite degli ultimi 30 anni. https://www.youtube.com/embed/SKHhaj9RjIY?start=22&feature=oembed

Durante la serie tra Los Angeles Lakers e Houston Rockets il giallo Danuel House ha innalzato la tensione all’interno della bolla. Il sistema di segnalazione e controllo ha funzionato e il texano è stato sorpreso nella stanza in compagnia di una visitatrice esterna non autorizzata. Il protocollo è stato davvero chiaro in questo caso e dopo la sospensione dalla serie, l’ex A&M University è stato espulso dal campus. Non è stato certo l’unico episodio: anche il buon Lou Williams, alla maniera di Dennis Rodman, ha sentito il bisogno di sgattaiolare dalla bolla per passare una serata in un night club. Dieci giorni di quarantena, più una sospensione di due partite (senza stipendio) per lui.

UNO SPETTACOLO SENZA PRECEDENTI

È stata un’edizione dei playoff davvero singolare, a iniziare dal pubblico virtuale. Per far fronte alla mancanza dei fan sugli spalti dei palazzetti l’NBA ha voluto utilizzare degli schermi virtuali – collegati al sistema video centrale della bolla – piazzati tutt’intorno al parquet. Ogni fan ha avuto la possibilità, attraverso l’app “Microsoft Teams”, di collegarsi alla partita e assistere con il suo computer in diretta – la sua immagine dalla webcam è stata proiettata sullo schermo. L’assegnazione dei posti è stata casuale e le modalità di accesso differenti: dal sorteggio attraverso l’iscrizione alle pagine degli sponsor della lega, alla vendita dei “biglietti” o all’estrazione direttamente da parte delle squadre tra i loro fan più accaniti.

Ma lo spettacolo ne ha risentito? Nonostante i dati televisivi dicano il contrario (6.4 milioni di spettatori per le Finals), lo show NBA nella bolla è stato massimo. I giocatori hanno dato tutto per le loro squadre e la possibilità di concentrarsi solo su ciò che si stava facendo ha permesso di limare i difetti e mettere a fuoco i punti di forza di ogni roster. La mancanza di pressione e di pubblico ha permesso anche a squadre che sulla carta risultavano meno attrezzate di dare filo da torcere alle franchigie più accreditate. Basti pensare ai Phoenix Suns, che fino alla fine hanno lottato per un posto ai playoffs, chiudendo l’esperienza nella bolla con 8 vittorie su 8 partite in favore dei Portland Trail Blazers del solito Damian Lillard, additato da molti come MVP di questa seconda parte di stagione – il playmaker ha chiuso con 36.2 punti e 8.5 assist di media.

Si potrebbe scrivere tanto anche dei Nuggets e del loro eroe, Jamal Murray, che dopo aver fatto fuori Jazz e Clippers si è arreso in finale di conference contro i Lakers. Così come si può discutere della consacrazione di Luka Doncic e del suo buzzer beater contro Kawhi Leonard e compagni, di come Clippers e Bucks si siano sciolti come neve al sole o della fantastica cavalcata dei Miami Heat e del loro condottiero Jimmy Butler, franchigia che a inizio stagione – secondo i bookmakers – non risultava neanche tra le prime dieci in lizza per il titolo.

UN SISTEMA VINCENTE

Questa situazione ha influenzato in qualche modo le prestazioni? Come detto in precedenza, l’assenza di distrazioni e tensioni ha permesso alle squadre di lavorare con più concentrazione e meno pressione sulle spalle, con gli allenatori che sono riusciti a svolgere un lavoro tecnico-tattico stupefacente. Se prendiamo come esempio le Finals tra Heat e Lakers, Spoelstra e Vogel, con i loro aggiustamenti e tatticismi, hanno giocato una vera e propria partita a scacchi. Ma tutto ciò ha influenzato anche i giocatori, soprattutto i così detti “underdog”, panchinari o giocatori sottovalutati che forse di fronte a ventimila spettatori avrebbero sentito le ginocchia cedere e la palla pesare come un mattone. Invece, proprio perché liberi di agire senza pesi sullo stomaco, sono riusciti a spiegare tutto il loro potenziale.

Si è parlato di stagione e titolo con asterisco. Io credo che quest’asterisco non tolga niente all’NBA 2019/2020, anzi, al contrario, penso che aggiunga valore a una lega piena di talento in campo e fuori. Tutte le forze in gioco, dal commisioner, ai proprietari, agli allenatori, allo staff, ai giocatori si sono rimboccate le maniche e hanno fatto gruppo, superando le complicazioni che questo 2020 ci ha riservato. La National Basketball Association ci ha regalato uno dei titoli più rocamboleschi, ma allo stesso tempo appassionanti degli ultimi anni, proclamandosi come l’unico campionato che è riuscito a far fronte a una pandemia mondiale e uscirne vincitore.

Chapeau.

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