76ers Focus

Trust the process – di Davide Tovani

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Si prospetta l’ennesimo rinnovamento per i Philadelphia 76ers, ma sarà la volta buona?

I Philadelphia 76ers si trovano a un importante crocevia della loro storia recente. Una deludente uscita al primo turno nei playoff 2020 ha comportato dei necessari cambiamenti per la franchigia della Pennsylvania: primo fra tutti l’inevitabile licenziamento dell’head coach Brett Brown, che aveva sostenuto fieramente il lunghissimo periodo di ricostruzione (o forse decostruzione).
I Sixers si affacciano alla stagione 2020/21 con grandi speranze, ma anche con la consapevolezza che potrebbe trattarsi dell’ultima opportunità prima di essere costretti a prendere importanti decisioni.

Piuttosto che costruire sul successo di una campagna 2019 conclusasi con una dignitosissima eliminazione in semifinale di conference con un canestro sulla sirena in gara-7 ad opera degli eventuali campioni Toronto Raptors, Phila è riuscita a complicare le cose, uscendo in qualche modo indebolita dalla offseason. Il tutto nonostante le grosse somme investite.
In un’estate, due elementi chiave della squadra sono stati lasciati andare in maniera praticamente deliberata da parte della franchigia: Jimmy Butler, che in pochi mesi in Pennsylvania era diventato l’alpha dog e closer della squadra; e JJ Redick, grande tiratore ma anche fondamentale leader nello spogliatoio.

Il 2020 è stato una stagione difficile per tutte le squadre NBA e la lega in generale, ma l’esperienza della bolla si è rivelata particolarmente deludente per i 76ers, eliminati al primo turno con un inaspettato 4-0 dai Boston Celtics. Certo, erano indubbiamente orfani di una delle loro superstar, ma questo difficilmente giustifica uno sweep per una squadra che lo scorso anno era in corsa per il titolo.

“Trust the process” recita l’ormai noto slogan nato durante la gestione di Sam Hinkie, ma c’è evidentemente qualcosa che non va nel “processo” se la tua point guard titolare (con o senza Ben Simmons) si chiama Shake Milton.

L’insuccesso della stagione ha riacceso il dibattito (mai chiuso) sulla coppia d’oro di Philadelphia. Possono Joel Embiid e Simmons convivere e riuscire a condurre la squadra al titolo? O La loro incompatibilità rende necessario liberarsi di uno dei due per trovare qualche pezzo che rappresenti un miglior aggiustamento accanto al rimanente? Sembrerebbe che la stagione ventura sia decisiva per le due superstar, quella che dimostrerà se le loro carriere condivideranno lo stesso futuro o ognuno andrà per la sua strada.

L’esonero di Brown, visto ormai come l’ultimo, necessario passo per un rinnovamento della situazione, non ha tardato ad arrivare, e anche se il general manager Elton Brand predicava pazienza sulla scelta del prossimo head coach, Doc Rivers – dopo aver abbandonato i Clippers – non è rimasto disoccupato per più di tre giorni. Nonostante il numero di candidati di alto profilo a disposizione, tra i quali Mike D’Antoni pareva essere il favorito, Brand non si è lasciato sfuggire l’opportunità.
L’aggressività delle offerte ricevute da Rivers la dice lunga sul rispetto di cui gode nella lega, considerando che nella sua carriera da head coach ha in definitiva vinto “soltanto” un titolo con i Boston Celtics dei Big Three (Four o quanti ve ne pare), a fronte del numero record di tre serie playoff perse dopo aver guidato 3-1 e il non aver mai portato i Clippers oltre il secondo turno.

I Sixers vedono in lui l’ultima speranza di riportare in carreggiata la franchigia. Senza dubbio, una delle ragioni che hanno condotto alla repentina assunzione risiede nel loro uomo da $180 milioni, Tobias Harris. L’ala newyorkese ha infatti giocato la sua miglior pallacanestro sotto Doc e la dirigenza conta sul fatto che la sua presenza riuscirà a rivitalizzare il loro investimento quinquennale dopo l’orribile 13,3% da tre nei playoff.

Mike D’Antoni, dopotutto, non avrebbe costituito la scelta migliore. Il suo stile di gioco e il personale di Phila non sarebbero stati compatibili allo stato attuale, e per raggiungere un certo grado di funzionalità si sarebbe reso necessario attuare immediati cambiamenti di grossa portata. D’altronde, dotare D’Antoni di una point guard che tenta 0,1 triple a partita e di un centro che, al contrario, è accusato di passare fin troppo tempo sull’arco, pare la formula per il disastro.

Vedremo come Rivers sfrutterà la coppia Simmons-Embiid, ma, dei cambiamenti all’interno del roster sarà comunque necessario farli per tentare di massimizzarla.
Purtroppo Philadelphia si trova in una situazione difficile anche da questo punto di vista, essendosi scavata la fossa nel momento in cui Brand prese la sciagurata decisione di offrire ad Al Horford un contratto da quattro anni e $109 milioni. Certamente un grande giocatore, con molte qualità in termini di talento, abilità e leadership. Fosse rimasto a Boston, forse i playoff sarebbero finiti diversamente questa stagione per i biancoverdi. Ma per ruolo, età e denaro non ha a nulla che vedere con i Sixers.

Firmato principalmente come assicurazione per il costantemente infortunato Embiid, non è stato però pagato come tale, ricevendo il ruolo di titolare. Ma giocare con due lunghi propriamente detti è uno stile che non funziona più nell’NBA di oggi. Perfino gli Utah Jazz, i più adamantini nell’insistere a schierare insieme Rudy Gobert e Derrick Favors, alla fine hanno abbandonato questo approccio e si sono convertiti alla tendenza contemporanea. Non è un caso che la migliore produzione nella stagione di Horford sia arrivata quando il centro camerunense è rimasto fuori per infortunio e l’ex Celtic ha potuto operare come solo e unico lungo in campo.

In una squadra giovane ma già affermata poi, offrire certi numeri (sia in termini di soldi che di anni) a un giocatore di quell’età risulta ancora meno sensato da un punto di vista della pianificazione a breve termine. Sotto contratto fino al 2023, sarà arduo trovare un partner per uno scambio disposto ad accollarsi un giocatore di quell’età, con quel salario, per così tanto tempo.

Questa infelice acquisizione è senza dubbio frutto di una confusionaria gestione della squadra, caratterizzata da un continuo cambio di front office, per troppo tempo senza una precisa direzione. Da Hinkie a Jerry Colangelo, poi il figlio Bryan, fino a Elton Brand. E per ultimo, quando la franchigia aveva appena giurato fedeltà a Brand stesso, l’assunzione del neo-disoccupato Daryl Morey nel ruolo di President of basketball operations. Certo, l’ex star della franchigia di Philadelphia ha ricevuto un’appetitosa estensione (tutto sommato meritata) e manterrà la posizione di GM, ma adesso è Morey al timone ed è a lui che dovrà rispondere, senza avere la libertà di agire di propria iniziativa.

Proprio Jimmy Butler ha citato, come ragione principale del suo rifiuto di rimanere, la mancanza di una direzione, di una voce unica che guidasse la franchigia.

Insomma, ancora moltissimi interrogativi per i Philadelphia 76ers agli albori della stagione 2020/21, sotto ogni profilo e punto di vista. Non si è ancora tenuto il Draft, ma già pare ci sia un’ombra sulla squadra, che in questa stagione dovrà trovare le risposte a molti interrogativi e capire se ci sia la speranza di trasformare in un prodotto vincente tutto ciò che è stato malamente messo insieme in anni di sacrifici, sofferenze e discutibili gestioni.

Alla luce delle recenti assunzioni, l’ottimismo è d’obbligo sulla facciata pubblica della franchigia, ma potrebbe essere già troppo tardi per salvare la nave.

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