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Breaking: il tanking non funziona

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La prassi ormai è chiara: quando una squadra NBA decide di ed entrare nella famigerata fase di ricostruzione, la strategia prevede di dare fondo al proprio roster scambiando ogni giocatore con un minimo valore di mercato per accumulare scelte al draft, nella speranza di pescare del giovane talento e da questo ripartire.

Nei mesi scorsi Sam Presti ne ha dato una magistrale prova, accumulando la bellezza di 16 draft pick tra il 2020 e il 2026 in una demolizione lampo del roster degli Oklahoma City Thunder, avvenuta nel giro di appena due settimane.

Si tratta oramai della norma per l’NBA. Con i giocatori che sono sempre più in controllo del proprio destino professionistico, capaci di forzare scambi per abbandonare la squadra corrente – alla ricerca di lidi migliori – prima della scadenza del contratto, o si è una contender o si opta per un’immediata ricostruzione ripartendo dalle fondamenta. Mentre un tempo le franchigie avrebbero fatto di tutto per rimanere rilevanti nel panorama NBA, aggiungendo i giusti pezzi e pianificando strategie per cercare di migliorarsi sempre e comunque (qualunque fosse la loro situazione) ed evitare di precipitare sul fondo della classifica, oggi è molto più facile e frequente vederle sacrificare tutte le principali pedine in loro possesso ed abbracciare quasi con entusiasmo (non da parte dei fan comunque) stagioni di terribile insuccesso.

Questa strategia implica una pratica divenuta ormai automatica. Optando per una ricostruzione basata su giovani giocatori selezionati al draft, la squadra agirà per avere un record il più possibile negativo e massimizzare così le proprie scelte originali, aumentando le probabilità di ottenere scelte più alte alla lottery con cui selezionare i migliori talenti provenienti da college, high school e quant’altro.

La pratica porta il nome di tanking, termine ormai divenuto familiare nell’ambiente NBA.

Certo, nessuna squadra potrebbe dichiarare apertamente di voler condurre una stagione il più possibile negativa, né tantomeno andare in campo e perdere appositamente le partite. Si tratterebbe di una violazione del codice etico-sportivo e andrebbe sicuramente incontro a dure sanzioni. Ma ci sono ormai strategie comprovate che permettono di farlo senza incorrere in questi rischi. Tanto che ormai queste sono state accettate e diventate normali parti del processo di formazione di una squadra. Scambiare i migliori giocatori in cambio di scelte è una di queste. Tenere a riposo i veterani in partite chiave è un altro modo. Nessuno scenderà in campo con l’intenzione di perdere, ma sarà dura per giocatori giovani o di scarso livello vincere un numero significativo di partite.


Le origini

Il primo ad inaugurare, in maniera quasi criminale, questo approccio fu l’ormai ben noto Sam Hinkie, iniziando nel 2013 una lunga e dolorosa decostruzione che avrebbe dovuto riempire le fila dei Philadelphia 76ers di grandi talenti destinati a riportare la franchigia ai successi di un tempo. “The Process”, così è stato rinominato questo periodo prendendo spunto dal noto slogan che tentava di predicare pazienza tra i fan infuriati: “Trust the Process”.

Hinkie è stato colui che ha sdoganato l’illegale pratica. Da quel momento, e con una rapidità sorprendente, quello che un tempo era uno sporadico avvenimento (ricordiamo i San Antonio Spurs nel 1997, che approfittarono dell’infortunio di David Robinson per far deragliare la stagione e ottenere così la prima scelta assoluta che avrebbe fruttato Tim Duncan) è diventato una pratica universalmente accettata. Numerose squadre senza speranze di gareggiare per il titolo, non avendo dunque niente da perdere, hanno deciso di smantellare il più velocemente possibile e “lottare” per le ultime posizioni in modo da accaparrarsi la parte alta del tabellone del draft.

Ma siamo sicuri che questa strategia sia davvero efficace e ricompensi con quello che, in teoria, promette? Il sistema NBA non garantisce che il peggior record corrisponda automaticamente alla prima scelta assoluta e la lega lavora costantemente per rendere questa associazione sempre meno probabile, in modo proprio da scongiurare che le squadre operino attivamente per arrivare ultime. Inoltre, la febbre da draft che porta ogni anno i migliori prospetti ad essere considerati “the next big thing”, illude spesso le squadre che navigano il fondo della classifica. Spesso infatti queste aspettative vengono deluse. C’è una ragione se i giocatori che hanno un vero impatto nella lega vengono definiti “generazionali”, ed è perché ne arrivano pochissimi, possibilmente uno-due ogni generazione. I Luka Doncic e i Zion Williamson capitano molto raramente, ed è più facile pescare un futuro MVP scegliendo molto più in basso. Il draft non è una scienza esatta e non si può prevedere come avverrà la transizione per un giocatore nella lega, Come la sua promessa si tradurrà all’atto pratico tra i professionisti.

Ecco dunque che puntare tutti i propri averi e riporre tutte le proprie speranze nel draft per la costruzione di una squadra competitiva non risulta una strategia così affidabile e ricompensante come appare a prima vista.

I fatti lo confermano.

Tre esempi.


Phoenix Suns

Dal 2011 i Phoenix Suns si ritrovano nella mediocrità più totale, senza aver più raggiunto i playoff dopo che, nel 2010, la coppia Steve Nash-Amar’e Stoudemire li aveva condotti in finale di conference.

In questo perenne stato di irrilevanza, dal 2016, essendosi inaspettatamente trovati per le mani un giovane e produttivo giocatore come Devin Booker, hanno totalmente abbracciato l’approccio “perdente” per cercare di ottenere dell’altro giovane talento con cui circondarlo. Cinque anni dopo, i Suns continuano a risiedere costantemente, stagione dopo stagione, sul fondo della classifica NBA, e il miglior risultato che hanno ottenuto in termini di draft è un centro che per adesso non ha impressionato e deve ancora dimostrare di avere un posto fra le promesse della lega. E per sceglierlo hanno utilizzato la prima scelta assoluta bypassando Luka Doncic, un vero talento generazionale, addirittura sceso alla 3.

E non lasciatevi ingannare dallo strepitoso risultato nella bolla di Orlando. Si tratta solo del risultato del prolungato stop forzato a cui le squadre sono state costrette a causa della pandemia. Le squadre più giovani sono state in grado di riprendere più velocemente a performare ad alto livello, mentre quelle veterane hanno avuto bisogno del loro tempo per tornare in ritmo. Inoltre, quelle affrontate da Phoenix nella seconda parte dei seeding games erano tutte squadre che avevano già ottenuto la loro qualificazione ai playoff, quindi decise a sedere e risparmiare i propri giocatori di punta in vista dell’imminente postseason.

Solo recentemente, grazie ad una fortunata serie di eventi, i Suns hanno finalmente fatto un salto di qualità con l’arrivo di Chris Paul e qualche (forse) saggia acquisizione in free agency. Ma tutto ciò non ha niente a che vedere con la strategia implementata fino ad ora.


New York Knicks

I New York Knicks, non per deliberata scelta ma per la condizione in cui si trovano, continuano anno dopo anno a riporre le loro speranze nella draft lottery, aspettandosi che gli dei del basket ricompensino le loro pessime stagioni con la prima scelta assoluta e sognando i Ben Simmons, Zion Williamson ecc. E anno dopo anno restano amaramente delusi, ritrovandosi a dover scegliere fra talenti di medio livello. Certo, bisogna dire che i Knicks non sono in questa situazione per una scelta premeditata, ma perché realmente incapaci di fare meglio di così. I giocatori di alto profilo non vogliono far parte di una franchigia così disfunzionale e ogni anno alla franchigia di NY restano le briciole della free agency. Dunque, per loro il tanking non è un’alternativa ma l’unica opzione possibile. Ciononostante il risultato non cambia.


Philadelphia 76ers

E, ovviamente, c’è Philadelphia. Quattro stagioni di dichiarata inettitudine per cosa? Quasi altrettante stagioni di rapide uscite dai playoff. Certo, in quei quattro anni i Sixers hanno ottenuto Ben Simmons e Joel Embiid, ma ci ricordiamo bene i passi falsi del “Process”: Michael Carter-Williams, Nerlens Noel, Jahlil okafor, Markelle Fultz, Dario Saric. Per non parlare dei giocatori lasciati andare in nome di questo movimento. Ne è davvero valsa la pena per ritrovarsi con due star attorno a cui hanno ruotato una quantità ingente di giocatori di passaggio senza mai dare continuità alla squadra? O avrebbero potuto ottenere una squadra dello stesso livello e gli stessi risultati attraverso altre vie, senza buttare via quattro stagioni? Per non parlare del continuo cambio di gestione, che ha contribuito a tutto quel caos che sono attualmente i 76ers. La stagione ventura sarà decisiva per dare una risposta a tutti questi interrogativi.


Chi ha percorso strade diverse dove è arrivato?

Se diamo un’occhiata ad alcune squadre che si sono ritrovate a ricostruire nello stesso timeframe dei Suns o dei Sixers, ma che non hanno optato per il tanking, ci ritroviamo a contarne numerose che hanno avuto lo stesso – o anche più – successo in una finestra ridotta. Il tutto facendo un intelligente uso delle proprie risorse, muovendosi per rinforzare costantemente la squadra attraverso scambi e free agency, lottando per i playoff e draftando giocatori con qualunque scelta venisse di conseguenza.

Nel 2014 i Denver Nuggets hanno selezionato Nikola Jokic con la 41esima scelta ed eseguito uno scambio (dando via praticamente nulla) per ricevere i diritti di draft su Jusuk Nurkic e Gary Harris. Sono poi arrivati Jamal Murray con la scelta numero 7 e Malik Beasley con la 19 nel 2016, Monte Morris con la 51 nel 2017 e Michael Porter Jr. con la 14 nel 2018. Mentre, tramite scambi, aggiungevano validi veterani. Nel 2015 i Nuggets conclusero con un record di 30-52. La scorsa stagione erano in finale di conference.

I Brooklyn Nets non potevano neanche prendere in considerazione la possibilità di ricostruire grazie al tanking, avendo sacrificato la quasi totalità delle loro scelte al draft e il loro futuro nello scambio che portò Kevin Garnett e Paul Pierce a New York nel 2013. Trovatisi sul fondo dell’NBA, senza speranze di attirare free agent di primo piano, non hanno avuto alternativa che costruire una solida cultura vincente e cercare di accaparrarsi tutto quello di buono che un mercato secondario gli concedeva. Attualmente, grazie all’appeal maturato negli anni, troviamo Kevin Durant e Kyrie Irving a guidare una squadra favorita ad Est nel raggiungimento delle Finals.

Nel 2013 i Toronto Raptors non raggiungevano i playoff da cinque stagioni e la storia precedente non testimoniava molto più successo. Ma hanno continuato a muoversi pazientemente, cercando di migliorare un pezzo alla volta e prendendo al volo le occasioni che si presentavano. Nel 2016 sono diventate una delle forze ad Est fino ad arrivare addirittura a vincere il titolo NBA nel 2019.

Nel percorso contrario, i Dallas Mavericks dopo l’anello vinto nel 2011 non sono più riusciti a superare il primo turno di playoff (quando li hanno raggiunti) e con il passare del tempo si sono trovati comprensibilmente legati da un’intesa di lealtà alla loro leggenda Dirk Nowitzki, la quale però stava invecchiando e non era più capace di contribuire al successo della squadra come un tempo. Nonostante questo, i Mavs non hanno mai puntato a peggiorare le loro prestazioni per un miglior posizionamento la notte del draft. Hanno piuttosto costantemente lottato per vincere il più possibile e tentare di rendere di nuovo Dallas una meta desiderabile per le star della lega. Al momento nelle loro fila contiamo il futuro giocatore simbolo della lega e una coppia di giovanissime e promettentissime star che, se sane, porteranno grandi soddisfazioni alla franchigia di Mark Cuban e, possibilmente, un altro titolo alla città di Dallas.




Insomma, le prove sono sotto gli occhi di tutti: una gestione saggia e razionale, mantenendo la competitività della squadra al livello più alto possibile, è senza dubbio più efficiente del puntare a perdere il più possibile per scegliere di più e più in alto al draft. Eppure pare che, nonostante queste evidenze, la tendenza sia sempre quella di optare per la seconda strada. Mai nella storia delle NBA le scelte al draft hanno avuto un valore così alto.

La sensazione è che il pensiero alla base della popolarità di questa tendenza sia l’apparenza che ricostruire tramite giovanissime promesse sia più rapido, efficace e affascinante che mettere insieme un gruppo di outsiders e creare un’identità a partire da questi. Ma spesso questi giocatori sono quelli capaci di dare qualcosa in più e contribuire enormemente alla costituzione di una contender.




Articolo a cura di Davide Tovani

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