Alla soglia dei 31 anni, dopo un inizio di carriera difficile (e sempre all’ombra del fratello) e un infortunio che gli ha fatto saltare un’intera stagione, Seth Curry ai Philadelphia 76ers sta letteralmente godendo di una seconda vita.
Certo, già a Dallas e a Portland aveva raggiunto buoni livelli, ma in Pennsylvania il secondogenito di Dell Curry si trova a ricoprire un ruolo di rilievo che mai aveva avuto in precedenza, ripagando la fiducia di coach Doc Rivers con un inizio di stagione davvero brillante che lo mette in corsa per il premio di Most Improved Player of the Year.
Ripercorriamo quindi il suo percorso cestistico dal college fino ai giorni nostri, evidenziando ciò che lo rende l’arma in più dei 76ers formato 2020-2021.
Gli inizi: college, draft e D-League
Diplomatosi alla Charlotte Christian School nel 2008, dove mette già in mostra le sue qualità (22.3 punti, 5.0 rimbalzi e 5.0 assist con il 52% dal campo nel suo anno da senior), Curry sceglie di frequentare la Liberty University. Al suo primo anno guida dal punto di vista realizzativo la classifica dei freshmen dello stato (20.2 punti di media), arrivando anche a stabilire il nuovo record di punti segnati in una singola stagione per un freshman della Big South Conference. Dopo un solo anno si trasferisce a Duke, in cui non può giocare immediatamente a causa del regolamento sui trasferimenti. Il debutto con i Blue Devils avviene solo nel 2010, ma Curry continua a dimostrare il suo valore dal punto di vista realizzativo e balistico, risultando tra i migliori giocatori nell’anno da senior (17.5 punti di media con il 43.8% dall’arco).
Nonostante le qualità dimostrate sia all’high school che al college, più che incredibilmente Seth Curry finisce undrafted al NBA Draft del 2013. Ad oggi, guardando la lista e l’ordine dei giocatori selezionati, sorge più di un sorriso, ed è evidente che il nativo di Charlotte avrebbe potuto essere tranquillamente scelto al secondo giro. Come spesso accade quindi, se non si trova posto in NBA ci si “accontenta” della D-League (ad oggi G League per ragioni di sponsor, ovvero la Gatorade).
Tra l’ottobre del 2013 e l’estate del 2015 il prodotto di Duke gioca per i Santa Cruz Warriors e gli Erie BayHawks, franchigie della NBA Development League affiliate rispettivamente ai Golden State Warriors e agli Orlando Magic, ottenendo per due anni di fila la convocazione per il Futures All-Star Team dell’NBA D-League All-Star Game. A Santa Cruz chiude la propria stagione con 19.7 punti, 3.1 rimbalzi, 5.8 assist e 1.4 rubate di media, mentre l’anno successivo con i BayHawks mette in piedi 23.8 punti, 2.9 rimbalzi, 4.2 assist e 1.4 rubate ad allacciata di scarpe.
Intanto, tra una partita di D-League e l’altra, riesce ad assaporare anche i parquet della NBA. Il debutto (4 insignificanti minuti) arriva con i Memphis Grizzlies, che tuttavia lo tagliano subito dopo; altre occasioni arrivano con i Cleveland Cavaliers e i Phoenix Suns, franchigie che lo firmano con dei 10-day contract – sempre lasciati scadere e mai rinnovati – e che gli fanno accumulare appena tre partite (17 minuti in tutto).
Finalmente la NBA: Kings, Mavericks e Blazers
Tecnicamente, come riportato in precedenza, Curry ha già effettuato il suo debutto in NBA, ma il primo vero contratto che lo lega in pianta stabile alla massima lega statunitense arriva solo nel luglio del 2015, quando firma un biennale da 2 milioni (con player option per il secondo anno) con i Sacramento Kings. La franchigia della California necessitava infatti di tiratori dall’arco e il classe ’90 era un giocatore più che adatto a tappare quel buco. Con i Kings trova un discreto spazio, disputando quasi 16 minuti di media in 44 partite (di cui 9 partendo nello starting five) e ottenendo 6.8 punti, 1.4 rimabzli e 1.5 assist ad allacciata di scarpe con il 45.0% dall’arco (su 2.5 tentativi). Al termine della stagione 2015-2016 Seth declina la player option e diventa free agent.

Nel luglio 2016 sono i Dallas Mavericks ad assicurarsi i suoi servigi con un altro contratto biennale. I texani gli danno molta fiducia, concedendogli svariate opportunità di partite in quintetto base (42 partite su 70 nella stagione 2016-2017) e un elevato minutaggio (29 giri d’orologio a match. Curry ripaga la franchigia con una prima regular season da 12.8 punti, 2.6 rimbalzi, 2.7 assist e il 42.5% dall’arco (su 4.6 tentativi), raddoppiando praticamente ogni statistica realizzata con i Kings. Proprio quando sembrava in rampa di lancio, nell’ottobre 2017 è stato messo ai box a tempo indeterminato per un problema alla tibia sinistra. Infortunio che ha successivamente richiesto un intervento chirurgico, tenendolo di conseguenza fuori per tutta la stagione.
Nell’estate del 2018 da free agent cambia divisa per la terza volta, accasandosi a Portland con un contratto annuale. Rilegato nella second unit con un minutaggio ridotto rispetto all’esperienza ai Mavericks (quasi 19′ a gara), le cifre del secondogenito di Dell non possono che calare: nelle 74 partite in maglia Blazers colleziona infatti solo 7.9 punti di media tirando con il 45.0% dall’arco. Con la franchigia dell’Oregon tuttavia ottiene la chiamata per il Three-Point Contest dell’All-Star Game (in cui esce malamente al primo round con il terzultimo punteggio) e partecipa per la prima volta ai playoff, in cui però fatica abbastanza e abbassa tutti i propri numeri (appena 5.6 punti con il 36.6% dal campo e il 40.4% da tre). Nella postseason Portland arriva fino alle Wetstern Conference Finals, arrendendosi con un netto 4-0 al cospetto dei Golden State Warriors.
Spirato il contratto con i Blazers e divenuto nuovamente free agent, a puntare su di lui sono ancora i Mavericks, che lo riaccolgono tra le proprie fila con un quadriennale da 32 milioni. In Texas Curry torna a vedere lo starting five (25 volte in 64 partite) e minuti importanti, ripagando ancora una volta la fiducia della franchigia. Il prodotto di Duke nella stagione 2019-2020 registra 12.4 punti, 2.3 rimbalzi e 1.9 assist di media con il 45.2% dall’arco (su 5.0 tentativi), aiutando Dallas a raggiungere i playoff. La seconda esperienza nella postseason è assolutamente positiva, riuscendo a contribuire su alti livelli (12.8 punti a partita con il 58.5% dal campo e il 47.6% dall’arco). Peccato solo che i texani si siano dovuti confrontare al primo turno con i Los Angeles Clippers, per di più praticamente senza Kristaps Porzingis, uscendo così per 4-2 dopo un’intensa lotta.
Nel novembre 2020, nonostante le ottime prestazioni, viene spedito ai Philadelphia 76ers in cambio di Josh Richardson e i diritti sulla 36° scelta al Draft (Tyler Bey).
Philadelphia: seconda vita da protagonista
L’approdo ai 76ers è una vera e propria svolta per Curry. Il genero, nonché head coach della franchigia, Doc Rivers lo lancia da subito in quintetto come guardia titolare e i risultati parlano da sé: nelle prime 10 uscite stagionali Seth produce 16.5 punti, 2.1 rimbalzi e 3.1 assist di media, tirando con il 59.6% dal campo e il 56.0% dall’arco (miglior percentuale della lega). Inutile dire che (quasi tutte) queste cifre rappresentano i valori più alti della sua carriera. Statistiche che hanno successivamente subito una flessione nelle ultime due gare.
E intanto Philadelphia, grazie anche proprio alle prestazioni del #30, si arrampica in cima alla Eastern Conference e mai come quest’anno risulta essere una delle favorite – insieme a Bucks e Nets – per la conquista del primo seed ad Est.
Un upgrade di Josh Richardson per il gioco dei 76ers
Ovviamente le prime considerazioni che vengono fatte dopo una trade sono delle ricerche per capire chi ci abbia guadagnato e chi invece abbia fatto la mossa sbagliata. In questo caso è piuttosto evidente che i vincitori siano i 76ers.
Sebbene infatti sia inferiore difensivamente (difficoltà a tenere il primo passo e a muoversi sui giochi a due), anche se il Defending Rating dei due è praticamente identico, Curry fa fare un deciso salto di qualità all’attacco della franchigia. Le sue abilità balistiche permettono infatti di creare uno spacing elevato: il 50% dall’arco (unito anche alla presenza di un altro tiratore come Danny Green), con la possibilità di sparare sia dal palleggio che sugli scarichi, costringe le difese avversarie a marcarlo con una discreta attenzione, rendendo molto più rischioso tentare dei raddoppi su Embiid o Simmons. Proprio quest’ultimi due quindi non possono che beneficiare della situazione, con il centro camerunense più libero di giocare in isolamento (la scorsa stagione era continuamente raddoppiato, se non triplicato) e il “play” australiano sgravato da ruoli realizzativi e con la possibilità di attaccare un pitturato meno intasato.
“E’ un’enorme aggiunta per noi. Ci aiuta molto perché è un giocatore che deve essere marcato”
Parole di Joel Embiid
A ciò si collega un ampio ventaglio di soluzioni a livello offensivo, cosa che Richardson non possedeva. A differenza del neo giocatore dei Mavericks infatti, il nativo di Charlotte è una minaccia in penetrazione, con il jumper dalla medio-lunga distanza e dall’arco, tirando complessivamente con il 53.9% dal campo e il 70.0% di True Shooting (prima delle ultime due partite era al 76.8%, valore migliore di tutta la NBA). Ancora una volta quindi si evidenzia il fatto che gli avversari non possano di certo disinteressarsi del giocatore – anche da dentro l’arco – e limitarsi solo ad evitare una sua scorribanda nel pitturato.
La differenza tra l’impatto sull’attacco dei 76ers tra Curry e Richardson si percepisce anche dai rispettivi Offensive Rating per 100 possessi: la scorsa stagione infatti il secondo, proprio come il primo, risultava il terzo miglior realizzatore della squadra, ma il suo ORtg era tra gli ultimi. Quello del prodotto di Duke invece è in pianta stabile tra i primi due valori più alti.
Un altro dato che ci fa percepire l’importanza del #30 negli equilibri offensivi della squadra è la percentuale dall’arco tenuta dai 76ers nelle partite in cui è stato assente: nei sei match saltati dal giocatore per il covid, i biancoblu hano tirato meglio del 35% solo in un’occasione, mentre per due volte sono rimasti sotto il 30%. Percentuali così basse dalla lunga distanza rappresentano un duplice problema: da un lato la franchigia non trova più punti da un’arma su cui discreto affidamento, dall’altro viene a mancare uno spacing ottimale, visto che se si sarà propensi ad avvicinarsi al ferro.
Insomma, era evidente che Philadelphia necessitasse assolutamente di qualche tiratore che aprisse il campo e che fosse anche in grado di apportare un contributo dal punto di vista realizzativo. Il lavoro di Curry è tra l’altro reso ancora più evidente da un altro acquisto, ovvero Danny Green: sebbene infatti stia tirando “solo” con il 37.1% dall’arco, l’ex Lakers fa sì che le difese avversarie debbano costantemente coprire in maniera attenta il perimetro, evitando di sbilanciarsi troppo su un singolo giocatore (considerando che anche Tobias Harris pare in grande forma dal punto di vista balistico).
Non solo tiro e punti
In tanti potrebbero pensare che questa evoluzione offensiva del buon Seth faccia solo riferimento alla sfera dell’efficienza realizzativa: migliori percentuali dall’arco e più punti segnati nonostante la quantità di tiri rispetto alla scorsa stagione sia pressoché immutata, e nient’altro.
Tuttavia, l’aspetto che forse molti sottovalutano e che incide in maniera molto significativa sono i passi avanti fatti dall’ex Mavericks e Blazers in qualità di passatore. In D-League aveva già messo su numeri interessanti, ma una volta fatto il salto in NBA – nonostante abbia quasi sempre giocato come point guard – queste sue abilità sembravano essere scomparse (solo una stagione sopra i 2.0 assist di media). Con i 76ers questo aspetto del suo gioco sembrerebbe riemerso, dimostrando buone capacità nel far girare la palla e nel trovare l’uomo libero con i tempi giusti.
I 3.0 assist a match (career-high) e un Assist Percentage pari a 15.3 (valore che una settimana fa era arrivato a 17.9, il massimo in carriera) sono cifre che vanno a ripagare ancora una volta la fiducia datagli da coach Rivers, il quale ha pensato di utilizzarlo anche in veste di playmaker secondario al fianco di Simmons. E proprio il #25 della franchigia della Pennsylvania ha speso parole di elogio nei confronti del compagno di squadra: “Adoro giocare con lui. Facilita il gioco. Si muove bene e non forza nulla. Ha un grande QI per il modo in cui gioca. E’ altruista e quando è on fire, beh è on fire“.
Most Improved Player
Parlare di corsa al MIP probabilmente è un grosso azzardo. Ci sono infatti giocatori che dal punto di vista statistico stanno avendo un impatto molto più evidente rispetto a quello di Curry. Pensiamo ad esempio a Jerami Grant (Pistons), Julius Randle (Knicks), Christian Wood (Rockets) e Jaylen Brown (Celtics).
Va comunque considerato, tenendo a mente che è passato solo poco più di un mese di regular season, che sotto un certo punto di vista il secondogenito di Dell ha effettuato un passo in avanti più grande degli elementi sopracitati. Certo, non ha raddoppiato le sue cifre come fatto da Grant, così come non sarà una vera e propria figura di spicco della franchigia (come invece lo sono Brown, Wood e Randle), ma il classe ’90 si sta affermando come valido starter di un team che punta molto in alto riuscendo al contempo a consolidare il suo status di uno dei migliori tiratori della lega. Aggiungendo a tutto ciò i sopracitati passi in avanti fatti come passatore.
Quasi certamente non vincerà il premio, così come con altrettanta sicurezza possiamo anche affermare che finirà fuori dai tre contendenti finali, ma Seth Curry merita quantomeno di essere citato nei vari dibattiti.