Marzo è il mese del college basket, non ci sono dubbi. Anche in un periodo storico come questo, con le restrizioni per pubblico, il Torneo NCAA catalizza l’attenzione più di qualsiasi altra partita della NBA, a maggior ragione se la massima lega statunitense vede un’intensità quasi assente.
Marzo è anche il mese dei bilanci per quelle squadre che non sono riuscite a qualificarsi al Torneo, e se ti chiami Indiana University questo è uno smacco che non può passare inosservato. L’Indiana è lo Stato del basket per antonomasia, lo Stato che vive in modo viscerale la sua passione assiepando con oltre diecimila spettatori le fasi finali del campionato statale delle scuole superiori. Una passione che è stata trasposta nel film “Hoosiers” (“Colpo Vincente”, in italiano) con Gene Hackman. Se non suonasse blasfemo, potremmo dire che il basket é la “fede” non ufficiale dello stato, Indiana University è la “Chiesa” e l’allenatore degli Hoosiers rappresenta il Gran Sacerdote. Se poi questo allenatore si chiama Bobby Knight, il concetto di gran sacerdote é anche riduttivo, si sale al grado di pontefice. Per anni “The General” (così ribattezzato per il passato a West Point e per i modi autoritari, che ne hanno poi causato il licenziamento) è stato uno dei personaggi fondamentali dell’Indiana, esercitando la sua influenza anche in aspetti che esulavano dal rettangolo di gioco.

Dal giorno dell’allontanamento di Knight, non solo i tifosi degli Hoosiers, ma tutto lo Stato è rimasto orfano di un punto di rifermento, e Indiana ha iniziato a brancolare nel buio, smarrendo quell’identità tecnica e quella continuità di risultati che sotto il “Generale” erano la normalità (ben 3 titoli NCAA). Da quel 10 settembre del 2010 si sono alternati quattro allenatori (tralasciando l’interregno di sette partite di Dan Dakich), e il quinto è in arrivo visto che pochi giorni fa è stato licenziato Archie Miller.
Iniziano a circolare i primi nomi dei probabili successori, e tra questi quello con più fascino è Brad Stevens. Non è difficile capire il perché: giovanissimo, brillante mente cestistica, nativo dell’Indiana, ex head coach della Butler University (che ha condotto a due Final Four consecutive) che conosce il basket giovanile dell’Indiana e i suoi “circoli”. A ciò si aggiunge l’esperienza accumulata nella NBA, che gli regalerebbe un indubbio appeal per convincere i migliori liceali a scegliere gli Hoosiers.
“Non può che far piacere ricevere così tanti messaggi di stima. Mi ha lusingato molto. Significa molto per me. Ho tantissimi amici in Indiana, ho la mia famiglia, mio padre e tante persone molto importanti nella mia vita. Non farò finta che questo non sia rilevante. Ma, allo stesso tempo, io sono l’allenatore dei Boston Celtics. Mi è stata concessa un’opportunità eccezionale, e sono estremamente grato e riconoscente per questo“.
“Sono un ‘Masshole” (abitante del Massachusetts, fiero e D.O.C, ndr) di 44 anni“.
Così Stevens ha prontamente liquidato le indiscrezioni e raffreddato l’entusiasmo degli appassionati dell’Indiana. Una dichiarazione che non poteva essere molto diversa, e che sembra anche molto sincera. Almeno in questo momento.
Ma siamo sicuri che sarà la stessa cosa anche tra qualche mese?
La stagione dei Celtics non sta andando come tutti si aspettavano: rendimento altalenante, alcune sconfitte inspiegabili (Cleveland e Sacramento, solo per riportare le ultime due), i dubbi sulla salute di Kemba Walker, il poco impatto dei nuovi acquisti… e, soprattutto, il gioco molto meno corale e creativo del solito per una squadra allenata da Stevens, gli inizi di partita svogliati e gli stenti nei finali di partita. Senza dimenticare le troppe iniziative personali di Tatum e Walker. Segnali che potrebbero far pensare ad una minor presa sul gruppo da parte del coach.

Forse un’esagerazione dettata dal periodo non felice dei Celtics, ma certamente il futuro di Stevens potrebbe essere legato ai risultati di questa stagione. Un’eventuale postseason negativa – che seguirebbe l’uscita con la non impossibile Miami nei playoff passati – potrebbe portare Danny Ainge a pensare di chiudere l’avventura di Stevens a Boston, soprattutto se pensiamo che gli otto anni passati sulla panchina biancoverde sono un lasso di tempo non usuale nella moderna NBA. Indiana potrebbe quindi rappresentare un’occasione imperdibile per Brad: tornare a casa, ritrovare la famiglia e gli amici di sempre, diventare l’erede di Knight e guidare la squadra per la quale si è emozionato da bambino. Quella guidata dal suo idolo Steve Alford al titolo del 1987.
Non sarebbe neanche il primo caso di un allenatore che lascia la NBA per il college: senza andare troppo indietro, nel 1989 Rick Pitino lasciò i Knicks dopo una stagione da 52 vittorie per risollevare Kentucky; mentre nel 2000 John Calipari scelse Memphis per ripartire dopo l’esperienza ai Nets.
La NFL, in anni recenti, presenta molti più casi: solo per fare alcuni nomi, Pete Carroll ha lasciato New England per USC, Nick Saban è passato dai Miami Dolphins ad Alabama, Jim Harbaugh ha salutato i San Francisco 49ers per Michigan.
Il college non rappresenta più un passo indietro. Se consideriamo che il livello degli emolumenti non è più così squilibrato a favore dei “pro”, sedere sulla panchina di una squadra di alto livello assicura una continuità di risultati che una lega professionistica non può garantire, tra le limitazioni di un salary cap incisivo, le inevitabili ricostruzioni, le differenze economiche tra le diverse squadre, le bizze dei giocatori che decidono l’inizio e la fine di un ciclo. Tranne rare occasioni, college come Duke, North Carolina, Kentucky, nel basket, e USC, Michigan, Florida State, nel football, occuperanno sempre le posizioni di testa del Ranking e si contenderanno il titolo.
I tifosi di Boston stanno toccando ferro perché questo non accada, così come quelli di Indiana stanno incrociando le dita per far sì che Brad arrivi davvero a Bloomington.
È prematuro, ma l’estate potrebbe riservare molte sorprese sull’asse Boston-Bloomington.