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Scorcio sulla doppia vita di una giocatrice WNBA

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Come molti di voi sanno, la stagione sportiva professionistica per la pallacanestro si svolge tra settembre/ottobre e maggio/giugno. Dopo l’hype della corsa scudetto o delle Finals NBA arrivano l’estate, le vacanze e, per i più dedicati, la stagione dei campetti e del 3vs3.

E se dicessi che ci sono tante atlete, tra le più forti, rispettate e titolate di questo sport, che non appena finiscono la stagione “europea” saltano su un volo verso gli USA? Ebbene sì, dato che la stagione americana del basket professionistico femminile, il campionato WNBA, si disputa nei mesi tra aprile/maggio e settembre.
Dodici mesi ininterrotti di allenamenti e partite, lo sforzo fisico e mentale che richiede competere al massimo della forma per tutto l’anno, ma soprattutto le difficoltà nel vivere lontano da casa, spesso in paesi totalmente agli antipodi rispetto a quelli di provenienza.

Eppure è così: l’Eurolega femminile pullula di talenti sopraffini provenienti dalla sponda americana dell’Oceano Atlantico. I club più competitivi sul mercato sono sicuramente quelli russi e turchi (UMMC Ekaterinburg, Dynamo Kursk, Fenerbahçe e Galatasaray), a cui si aggiungono anche squadre ungheresi (Sopron), spagnole (CB Avenida, Uni Girona) e francesi (Lyon). Queste realtà sono finanziate da ingenti investimenti e sono supportate da organizzazioni che hanno deciso di puntare sullo sport femminile, concetto che oggi – come tutti sappiamo – è tutto meno che sviluppato.

Diana Taurasi, una delle più grandi – se non la più grande – giocatrice di basket che abbia calcato i parquet di tutto il mondo, durante un’intervista con Sue Bird (un altro pilastro della storia del basket contemporaneo) ha dato una descrizione di questo doppio impegno che le giocatrici si trovano a vivere e che forse nessun altro atleta al mondo deve sostenere: “E’ come se avessimo due tipi di stagioni diverse. Quando vai a giocare oltreoceano [in Europa] devi dare sempre il massimo, vai lì perché ti pagano profumatamente, quindi hai l’obbligo di dare il meglio di te ogni volta che entri in campo; quello è il tuo lavoro e sei pagata per farlo al meglio. Quando torniamo in America, invece, è come se giocassimo per orgoglio: questa è la lega delle migliori, i più grandi talenti giocano qui, contro di te, e tu competi per dimostrare che sei la migliore, non certo perché ti pagano”.

Sue Bird (a sinistra) e Diana Taurasi (a destra)

Riflettendo su questo punto si può rimanere quasi interdetti: ma come, anche nella terra promessa del basket lo sport femminile viene ignorato e sottovalutato? La risposta è sì.

Tutte le più grandi atlete di questo sport, una volta uscite dal college, sapevano cosa le avrebbe attese. Così con la toga e il tocco ancora addosso hanno fatto le valige e sono partite, direzione Russia, Cina, Spagna e Turchia. Viene ormai considerato come un processo obbligato, come un normale iter nella costruzione della carriera.

Sue Bird e Diana Taurasi, ricordando i dieci anni trascorsi in Russia in diverse squadre, parlano spesso di come non avessero internet e dovessero noleggiare i dvd in inglese per poter passare il tempo, oppure di come a tutti i pranzi di squadra, con gli sponsor e la dirigenza del club, ci fosse sempre un bicchiere da shot colmo di vodka per ogni posto a tavola, così che ad ogni discorso o brindisi si mandasse giù uno shot invece che fare cin cin con il bicchiere del vino. Sono particolari frivoli, però aggiunti alla difficoltà della lingua, all’impossibilità di muoversi liberamente (nella steppa russa avevano a disposizione degli autisti per spostarsi, ma usufruire di questo servizio richiedeva tempistiche estremamente dilatate e anche andare a fare la spesa diventava una rognosa questione di organizzazione e coordinamento) e all’essere letteralmente dall’altra parte del pianeta rispetto a casa, contribuiscono a creare una situazione non facile da affrontare a 22/23 anni.

Condizioni che diventano ancora meno semplici se consideriamo che alcune di queste atlete si sono imbarcate in questa avventura da neo mamme. Solo di recente sono stati firmati diversi accordi che garantiscono alle atlete la maternità, ma fino a non molti anni fa non c’erano coperture o sicurezze in materia. L’essere atleta e l’essere madre sono due realtà che convivono da tempo con pochissime tutele, ma, nonostante le difficolta, tante campionesse hanno perseverato e hanno dimostrato che è possibile essere entrambe, anche con risorse scarse.
Un esempio di questa dinamica è Candace Parker: pochi mesi dopo la nascita di sua figlia Lailaa ha firmato con Ekaterinburg, superpotenza del campionato russo, trasferendosi così oltre gli Urali (letteralmente dal lato opposto del globo rispetto agli Stati Uniti) con una bimba di pochi mesi e con la madre al seguito per aiutarla. Molti potrebbero pensare che sia una follia, e forse un po’ lo è, ma dimostra anche la voglia e la determinazione di costruire una carriera e di inseguire il sogno di fare del basket il proprio mestiere, nonostante tutti gli ostacoli.

Candace Parker con la figlia

L’impegno sostenuto e prolungato che questo tipo di carriera richiede non dura però per l’intera carriera di una giocatrice: l’età influisce molto di più che nel basket maschile, motivo per cui questa “double life” si concentra nei primi anni di attività professionistica.

I nomi illustri di questo sport come le sopracitate Candace Parker, Diana Taurasi e Sue Bird, le stelle del passato Lisa Leslie, Tina Charles e Penny Taylor, ma anche i talenti emergenti come Jewell Lloyd and Breanna Stewart, sono tra coloro che sono riuscite a fare del basket il loro unico lavoro. Tantissime altre come loro hanno raggiunto questo obbiettivo, altrettante atlete però non hanno avuto eguale successo e per loro il sogno di guadagnarsi da vivere giocando a basket è finito molto prima.

Che lo sport femminile non abbia lo stesso seguito di quello maschile non è di certo un mistero: ci sono questioni di marketing, investimenti e visibilità che si sviluppano alle spalle del prodotto sportivo effettivo. Per non parlare della differenza sul piano atletico e tattico. Ma non è questo il punto.
Talento, tenacia e passione appartengono anche al “basket rosa” e l’impegno che le atlete mettono nel loro lavoro non è così diverso da quello dei loro colleghi. Se si aumentassero le opportunità e la visibilità dedicate allo sport femminile, come peraltro sta già accadendo in alcuni ambienti ci sarebbero diverse persone che potrebbero rimanere piacevolmente sorprese.


La pretesa, o il messaggio che alcune provano a lanciare, non è che i livelli con la NBA e il basket maschile in generale vengano colmati. Sarebbe assurdo ed utopico. Il discorso è che c’è un’altra realtà per cui vale la pena recarsi al palazzetto, pagare un biglietto e fare del tifo. Il tutto rimanendo consapevoli di ciò a cui si sta assistendo.




Articolo a cura di Elena Orvieto

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