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L’abdicazione di Danny Ainge

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Danny Ainge, General manager dei Boston Celtics, nel corso di una conferenza stampa ha annunciato il ritiro dal ruolo di responsabile del comparto tecnico, passando la mano a coach Brad Stevens. Nei quasi quattro lustri alla guida della franchigia biancoverde le squadre da lui gestite sono state protagoniste di un titolo, una finale NBA, quattro finali di Conference e 15 postseason in 18 stagioni. Potrebbe sembrare un risultato deludente, ad un occhio poco competente. Quello che i numeri non raccontano, però, è il ritorno di Boston nell’empireo della NBA dopo dieci anni di anonimato, la rinascita del Celtics Pride, il rinnovato rispetto degli avversari e, “last but not least”, l’interesse degli sponsor. Nella conferenza stampa Ainge ha ringraziato i proprietari e si è dichiarato convinto che i Celtics siano in buone mani, perché Stevens è tagliato per il nuovo ruolo e lo staff di supporto rimane immutato. La ricerca del nuovo coach sarà un momento interessante ed importante, ma è convinto che la scelta sarà in linea con la tradizione. Ha infine aggiunto che “guidare quest’organizzazione è stata un’emozione unica della quale sono grato alla proprietà, ai miei colleghi del front office ed ai migliori tifosi di basket al mondo”.

Brad Stevens insieme a Danny Ainge durante un allenamento

Steve Pagliuca, co-proprietario della franchigia, ha dichiarato: “Ho amato ogni singolo giorno speso assieme a Danny, ed i Celtics hanno beneficiato dalla sua instancabile ricerca dell’eccellenza così come del suo approccio al gioco fondato sull’integrità morale. Danny ha costruito la squadra che ci ha portato il diciassettesimo titolo e ci lascia con un gruppo di talento sul quale dovremo costruire la squadra del futuro assieme a Brad Stevens”.

Nella primavera del 2003 Wyc Grousbeck, il nuovo proprietario dei Boston Celtics, aveva in mente un nome per l’incarico di General Manager. Era un compito che si prospettava difficile, perché la squadra si trovava nella “terra di mezzo”, troppo forte per scegliere in alto al draft ma con talento insufficiente a puntare al successo. Grousbeck fece quello che ogni uomo di successo fa quando si trova in un territorio a lui sconosciuto: si affidò al miglior consulente possibile, Red Auerbach. Gli chiese se Danny Ainge fosse una scelta valida, ed Auerbach sfoderando il classico sottile senso dell’umorismo diede la sua benedizione:E’ senz’altro un uomo fortunato”.

Bene, Auerbach non ha sbagliato molto nei suoi sessant’anni di NBA. Ha vinto 9 titoli da allenatore e 16 da manager, portando a Boston mezza Hall of Fame. Ma nel caso del “Danny Ainge fortunato” aveva decisamente preso un granchio, perché i 18 anni al timone del Trifoglio del prodotto di Brigham Young sono stati tutt’altro che fortunati.

Ben di rado ha potuto contare su un draft favorevole e spesso ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie per costruire un gruppo vincente. Accadde al draft del 2007, quando le “palline” della lotteria rotolarono nel peggior modo possibile per Boston mandando Kevin Durant a Seattle, ed Ainge lavorò sodo per imbastire una trade che creò i primi “Big Three” del nuovo millennio, quel Garnett-Pierce-Allen che soli dieci mesi dopo riuscirono ad aggiudicarsi il titolo NBA.

I Big Three dei Celtics: Paul Pierce (#34), Kevin Garnett (#5) e Ray Allen (#20)

Accadde nuovamente nel 2009 quando un grave infortunio bloccò il tentativo di “repeat”. Ainge ebbe il coraggio di cedere Garnett e Pierce ai Nets per ricostruire più velocemente. E’ accaduto ancora nel 2017 con l’infortunio a Gordon Hayward in un gruppo che – contando anche su Kyrie Irving, Al Horford, Jayson Tatum e Jaylen Brown – sembrava poter ambire a sfidare i Golden State Warriors. E solo pochi mesi fa i Celtics sono stati colpiti nuovamente da quella che il grande Aldo Giordani chiamava “la strega dai denti verdi”: infortunio al ginocchio sinistro per Kemba Walker, con conseguente stagione a scartamento ridotto per un gruppo che forse ha perso un po’ dell’inerzia e dell’energia che aveva contrassegnato le stagioni precedenti.

Ainge, che nel maggio del 2019 durante i playoff aveva subìto un leggero attacco cardiaco, è giunto alla conclusione che a 62 anni e con una squadra tutto sommato sulla strada giusta (la stella Jayson Tatum ha 23 anni, Jaylen Brown 24, il centro Robert Williams 23, gli interessanti Romeo Langford ed Aron Nesmith rispettivamente 22 e 21) fosse il momento opportuno per passare la mano.

Sicuramente per i Boston Celtics questa è la fine di un’era, un giorno “dolceamaro” (come lo hanno definito sia Ainge che Stevens) non solo per l’addio del GM di lungo corso, ma anche perché la sensazione è che in questi 18 anni la franchigia non abbia raggiunto i risultati che il suo lavoro e la sua conoscenza e competenza avrebbero meritato.


Ma, forse, è anche questo il bello dello sport: Red Auerbach lo sapeva bene, che per vincere non ci vuole solo talento, ma è necessaria anche molta fortuna.




Articolo a cura di Fabio Anderle

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