Pochi giorni fa si è svolta la cerimonia di ingresso nella Hall of Fame 2021. Tanti nomi eccellenti della NBA si sono recati a Springfield per rendere omaggio a dei giocatori che adesso possono davvero essere definite leggende.
Se Bill Russell lo era già (eletto per suoi successi da allenatore dopo essere stato nominato nel 1975 come giocatore), per Paul Pierce, altro Celtic d’eccellenza, è la fine di un percorso che lo ha visto segnare 26.397 punti, per Chris Bosh il premio per aver dovuto terminare anzitempo la carriera, mentre per Toni Kukoc ha rappresentato la chiusura del cerchio iniziato con le “sculacciate” di Barcellona ’92 riservategli da Scottie Pippen e Michael Jordan.
Per questi meravigliosi interpreti del gioco il percorso è stato segnato fin dal principio, grazie ad un talento naturale che poteva solo essere sperperato da scelte e compagnie sbagliate, ma per un altro protagonista della serata non è stato così.
Nella platea, a festeggiarlo, c’era tutto lo starting five di quella squadra magnifica che nel 2004 arrivò al titolo NBA, una squadra costruita, sostanzialmente, con giocatori scartati dal resto delle squadre NBA: lo era Chauncey Billups, terza scelta assolta ma smarritosi in un girovagare senza costrutto prima di risorgere a Minnesota (e dopo a Detroit); lo era “Rip” Hamilton, bocciato troppo presto da Michael Jordan a Washington; lo era, difficile a credersi, Rasheed Wallace, regalato da Portland (via Atlanta) dopo stagioni all’insegna di tecnici e sospensioni; lo era anche Tayshaun Prince, scelto alla fine del primo giro del Draft tra i dubbi legati al ruolo e al fisico.
Ma nessuno è mai stato più scarto di Ben Wallace, il “Big Ben” alle cui schiacciate e stoppate, al Palace di Auburn Hills, risuonava il rintocco del più famoso campanile di Londra.
“La vita non mi ha regalato molte opportunità all’inizio. Ma ho continuato a lottare… La vita è competizione”, questo il forte messaggio di Ben dal palco della Hall of Fame. Non poteva essere più chiaro, così come non poteva usare parole più adatte per descrivere che tipo di giocatore fosse. Non il più talentuoso, non il più atletico, non il più potente, sicuramente non il più tecnico e decisamente non il più alto, soprattutto per giocare come centro in quella NBA. Ben era il più competitivo, il più motivato a far rimangiare i giudizi sprezzanti che lo hanno sempre accompagnato all’inizio della sua carriera.

La sua lunga avventura parte da White Hall, piccola cittadina dell’Alabama. Una realtà poverissima, nella quale la famiglia di Wallace non si distacca molto. Decimo di undici figli, già da piccolo capisce che la vita sarà dura: lavorerà nelle piantagioni di cotone e in un autolavaggio, schivando sempre le “scorciatoie” che potevano rovinargli per sempre l’esistenza. Come spesso accade nelle storie di basket, tuttavia, il fato si interessa del giovane Wallace. In occasione di un suo viaggio in Alabama per presenziare a un camp estivo, Charles Oakley nota quella forza della natura e decide di aiutarlo. La sua vita cambia radicalmente, anche se in quel momento non può neanche immaginare quanto.
Sotto la protezione dell’ala dei Knicks, Ben si iscrive a un Junior College dell’Ohio e, successivamente, a Virginia Union, non casualmente l’ex università di Oakley. Nell’anno senior, chiude a 12 punti, 10 rimbalzi e quasi 4 stoppate di media, ma neanche le statistiche e le buone ambasciate di Oakley riescono a farlo scegliere al Draft del 1996.
“Non sono stato accettato all’inizio. Ero troppo piccolo, non riuscivo a giocare come volevano. Mi sembrava un gioco impari. Ma pensavo: ‘fatemi scendere in campo e vi farò vedere ’”.
Si spiega così quella carica, quell’intensità, quella ferocia agonistica che lo hanno reso, “Afro” o con le treccine, il preferito del pubblico di Detroit, colui che incarnava alla perfezione lo spirito della (ex) città operaia per eccellenza degli Stati Uniti.

Finito undrafted, arriva comunque un invito da parte dei Celtics. Lo staff tecnico biancoverde decide che con quei centimetri (202) non può assolutamente resistere nelle aree NBA, così decidono di provare Wallace come ala piccola. Un tentativo che – dato il tiro approssimativo e i fondamentali non proprio da esterno – sembra destinato a fallire miseramente. Invece Ben si comporta bene in campo, distinguendosi per l’energia, l’intensità e, neanche a dirlo, l’eccellente difesa. Quanto fatto vedere sul parquet non basta però a guadagnarsi un posto nel roster, con Boston che decide di salutarlo senza troppi ripensamenti e di puntare su un centro classico come Frank Brickowsky e Brett Szabo.
Wallace è costretto a emigrare e approda in Italia, direzione Reggio Calabria. Lo firma la Viola, una squadra che ha un certo fiuto per futuri campioni NBA (dice niente Emanuel Ginobili?). L’esperienza sarà breve ma formativa, come ricorda Ben: “Ho iniziato a capire come giocare a basket senza far sempre affidamento sulle mie qualità atletiche. Ho migliorato i fondamentali e la comprensione del gioco“.
Dopo tre settimane in Calabria, arriva improvvisamente l’offerta di Washington. Il GM Wes Unseld, centro sottodimensionato per eccellenza, decide di puntare su quel giovane tanto volenteroso, e lo affida alle sapienti cure di Clifford Ray (uno dei tecnici più apprezzati per lo sviluppo dei lunghi). Il primo anno gioca con il contagocce, nel secondo 16 minuti a partita, nel terzo i minuti salgono a 26, durante i quali registra 8 rimbalzi e 2 stoppate di media. Ormai Ben è diventato un giocatore NBA a tutti gli effetti.
Proprio il campionato 1998/99 sarà il suo trampolino di lancio. Orlando lo chiama per sostituire Horace Grant, e lo promuove in quintetto. I Magic saranno premiati con una stagione da 5 punti, 8 rimbalzi e 1.6 stoppate in soli 24 minuti di utilizzo a partita. L’estate del 2000 è ancora più importante: i Magic, con qualche dispiacere, lo devono sacrificare sull’altare di Grant Hill, in una campagna acquisti talmente aggressiva e faraonica che vedrà arrivare in Florida anche il rampante Tracy McGrady (e stava quasi per aggiungersi anche Tim Duncan, ndr).
Il trasferimento a Detroit, inizialmente visto come un deciso passo indietro, si tramuta nella sua fortuna. In maglia Pistons Ben vivrà i momenti più esaltanti della sua carriera, sia a livello individuale che di squadra. Le vittorie nella classifica dei rimbalzi, gli All-Star Game e i quattro premi di “Difensore dell’Anno” sono decisamente degli ambiti riconoscimenti, ma per un giocatore di squadra come lui niente ha il sapore come il Titolo NBA del 2004. Quei Pistons sono stati la compagine più “democratica” degli ultimi 20 anni, cosi bella da vedere, eppure così atipica in un contesto come quello della NBA attuale, impegnata nella ricerca dei superteam. Detroit vinse il titolo NBA proprio contro il primo super squadra della NBA moderna, quei Los Angeles Lakers che avevano affiancato Gary Payton e Karl Malone a Shaq e Kobe. Ai solisti gialloviola i Pistons opposero l’altruismo e la condivisione delle responsabilità, vista la mancanza del classico “go to guy”.
L’immagine simbolo del trionfo è proprio Wallace che, bomboletta spray alla mano e in pieno stile “street art”, copre con una vistosa croce il numero 16 presente sul cartellone a bordo campo, in quella che era una delle pubblicità usate dalla NBA per promuovere le Finals.

Ad accompagnarlo sul palco della Hall of Fame c’era Larry Brown, il coach di quei Pistons che è rimasto folgorato da Ben malgrado le sue lacune tecniche non fossero proprio l’ideale per il suo basket reso celebre dal motto “Play the right way”.
In platea, come detto, i protagonisti di quell’eccezionale cavalcata del 2004. “Con l’ingresso di Ben nella Hall of Fame, è come se fossimo entrati anche tutti noi”, ha dichiarato Billups.
E’ effettivamente così. Probabilmente proprio Billups potrebbe essere chiamato a Springfield tra qualche anno, ma il primo a essere premiato con tale riconoscimento doveva essere proprio Ben, il simbolo di quella squadra e il manifesto del giocatore sottovalutato che ha sovvertito qualsiasi previsione. Il primo, e quindi l’unico (finora), ad entrare tra le leggende del basket dopo una mancata selezione al Draft.
Congratulazioni “Big Ben”!