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La “Verità” del Draft 1998

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Vorrei ringraziare Clippers, Vancouver Grizzlies, Denver Nuggets, Toronto Raptors, Golden State Warriors, Dallas Mavericks, Sacramento Kings, Philadelphia 76ers e Milwaukee Bucks. Le nove squadre che non mi hanno scelto. Grazie, davvero. Avete aggiunto benzina al mio fuoco”.

Paul Pierce non poteva evitare di togliersi questo sassolino dalla scarpa dal palco della Hall of Fame. Se Ben Wallace è entrato nella Hall of Fame senza essere scelto al Draft, figuriamoci se non poteva riuscirci Pierce partendo dalla decima. Il suo scivolone fino alle porte delle chiamate in doppia cifra è forse la più clamorosa dimostrazione di come il Draft sia la scienza più inesatta che esista.

Facciamo un salto indietro.

Paul, se ti dichiari quest’anno, sarai scelto attorno alla decima. Se resti un altro anno, migliorerai ancora e sarai certamente una delle prime tre”. Roy Williams, suo allenatore a Kansas, doveva avere la sfera di cristallo per azzeccare così la previsione. Solo che la profezia non si riferisce al Draft del 1998, bensì a quello del 1997, nel quale Pierce stava pensando di entrare dopo la deludente eliminazione al Torneo NCAA.
Nel Draft del 1998, invece, Pierce era previsto da tutti al massimo alla terza chiamata. Non è difficile da capire il perché: nel suo anno Junior aveva compiuto un ulteriore progresso rispetto all’ottima seconda stagione con i Jayhawks, migliorando le scelte di tiro, il ball handling e la comprensione del gioco. Se sommiamo tutto questo al primo passo più veloce del college basket e agli istinti realizzativi, ecco apparire le sembianze di un realizzatore pronto a segnare 20 punti di media nella NBA (cifra all’epoca aveva un peso specifico maggiore rispetto ad oggi, ndr).
Grazie per avermi insegnato il gioco del basket. Arrivai come McDonald’s All-American a Kansas, pensavo di sapere tutto. In realtà non sapevo poi così tanto, a dire la verità non sapevo nemmeno come uscire da un blocco”, questo il ringraziamento che Paul ha dedicato dal palco di Springfield a Williams, lo scultore che lo ha modellato tecnicamente, nonché fatto crescere umanamente.

Pierce in maglia Jayhawks

Torniamo alla sera del 24 giugno 1998, al GM Place di Vancouver.

La prima chiamata assolta del Draft spettava ai Los Angeles Clippers, reduci dalla solita stagione frustrante. L’unico giocatore futuribile si era dimostrato Isaac Austin, ma il centro era free agent e chiedeva i soldi che la sempre “attenta” proprietà non voleva investire. Ecco che, a sorpresa, la scelta di Mike Bibby non fu più così ovvia. Infatti, con un colpo di scena epocale, i Clippers decisero di scommettere sugli enormi margini di miglioramento di Mike Olowokandi, centro dal fisico scolpito e in netta crescita. È superfluo ricordare come la scommessa sia stata persa, con “Olo” che contende a Kwame Brown il non ambitissimo titolo di peggior prima scelta assoluta di sempre…

Da questo momento, i riflettori si spostarono su Paul, in lizza per ognuna delle chiamate successive.

Bibby si accontentò della seconda chiamata, sebbene Vancouver non fu certo la destinazione più gradita. Anche Pierce era in lizza, ma il play di Arizona era visto come il talento principale del Draft, così abile e freddo nel guidare la squadra anche sotto pressione e dotato anche di un solido tiro dalla distanza. Bibby non è però diventato quel leader che cambia il volto a una franchigia, anche se quando arrivò a Sacramento, attorniato da giocatori di talento, si dimostrò perfetto come regista di alto livello.
Tutto era pronto per la chiamata di Paul da parte di Denver, ma anche in questo caso qualcosa non andò secondo le attese. Sprovvisti dei centimetri sotto canestro, i Nuggets si affidarono a Raef LaFrentz, compagno di squadra di Pierce a Kansas. Purtroppo, la sua carriera fu condizionata dalla rottura del legamento crociato al ginocchio sinistro, perché Raef era decisamente un lungo dalle spiccate qualità tecniche, capace di segnare anche da fuori (14 punti e 7 rimbalzi con il 39% da tre, da rookie).

Anche Toronto e Golden State, titolari della quarta e della quinta, avevano pensato a Pierce, ma si accordarono per scambiarsi Vince Carter e Antawn Jamison. I Warriors volevano un giocatore più interno, sebbene con qualche punto interrogativo sulla fisicità, mentre i Raptors credevano (ed ebbero anche troppa ragione) che la spettacolarità, oltre alle qualità tecniche emerse nelle ultime due stagioni a North Carolina, di Vince avrebbero attirato tanto pubblico all’Air Canade Center.
La sesta chiamata spettava a Dallas, ma c’era un accordo con Milwaukee. I Bucks si erano innamorati di Robert Traylor, il “Trattore” di Michigan, e avevano tutte le ragioni. Già in stagione aveva stupito per un fisico più in controllo (sempre 120 chili, comunque) e la consueta potenza nei pressi del canestro, ma nei provini individuali era risultato ancora più asciutto, migliorando un’agilità già di per sé inspiegabile. Un potenziale enorme, che Robert non è mai riuscito a esplorare completamente, prima di lasciarci nel 2011.
Anche Sacramento scommise pesantemente al Draft. Alla settima, tra lo stupore generale, selezionò Jason Williams, un talento bizzarro e selvaggio che era stato allontanato per problemi vari sia da Marshall che da Florida. Jason si dimostrò una scelta azzeccata: negli anni successivi “White Chocolate” incendiò l’Arco Arena con i suoi passaggi visionari e le pazze triple, ma in seguito i Kings decisero di provare a vincere e si affidarono alla sobrietà di Bibby.
Larry Brown a Philadelphia avrebbe voluto selezionare Paul, ma la dirigenza non poté non mantenere la promessa data a Larry Hughes, freshman dal talento cristallino in uscita da Saint Louis. Nella NBA non è mai esploso definitivamente, ma comunque è riuscito a diventare un giocatore capace di segnare oltre 22 punti di media in due stagioni (2000 a Golden State e 2005 con i Wizards). Accoppiare Pierce ad Allen Iverson, però, sarebbe stata un’altra cosa…
Alla nona, selezionando Dirk Nowitkzi, i Bucks completarono con Dallas uno degli scambi peggiori della storia. Inutile comparare le due carriere di Dirk e del “Trattore”.

Alla decima chiamata arrivò finalmente il momento anche di un nervosissimo Pierce. L’aspetto curioso risiede nel fatto che neanche Boston voleva sceglierlo, con Rick Pitino che aveva già l’accordo con Dirk Nowitzki. Si era persino recato a Roma per scrutinarlo e convincerlo a disertare qualsiasi provino e aveva, tra le altre cose aveva scomodato Red Auerbach per assicurare il giovane tedesco delle sue serie intenzioni.
Erano saltati tutti i nostri piani, ed eravamo alla ricerca di una soluzione rapida. Poi ho visto che Pierce era ancora disponibile. Come era possibile? Non lo avevano studiato molto perché era previsto tra le primissime chiamate. Quindi chiesi subito a Chris Wallace (l’allora GM dei Celtics): ’Cosa c’è che non va? Cosa c’è che noi non sappiamo?”, ricorda Pitino.

Un Pierce sorridente dopo la fine dell’incubo…

Non c’era nulla che non andava in Pierce, e infatti la sua discesa fu un incredibile domino che possiamo spiegare con tanti fattori: le sopravvalutazioni di giocatori che oggi fanno sorridere (Jamison, Traylor, per non parlare di Olowokandi…); la decisione di Pierce e dell’agente di sconsigliare la sua chiamata ad alcune franchigie (Toronto, Sacramento); alcune illazioni, poi rivelatesi non proprio attendibili, che parlavano di un Pierce fuori forma e svogliato nei consueti “workout”; non ultimo, il panico di non sapere quello che gli altri general manager potessero aver scoperto nelle ultime ore.

La carriera di Pierce nella NBA è stata segnata da quella sera. Nell’estate successiva alle scelte, a ogni tiro accompagnato dal fruscio della retina era associato il nome dei nove scelti prima di lui. Una motivazione aggiuntiva che lo ha reso, grazie al ricchissimo arsenale offensivo, un incubo per ogni difensore, permettendogli di segnare la bellezza di 26.397 punti. Lo sa bene Shaq, che dopo essere stato affondato dai 44 punti di Pierce, gli rese omaggio con il soprannome di “The Truth” (la Verità).
Il titolo del 2008 è stata l’apoteosi del suo percorso, qualche volta accidentato (tra un approccio non sempre impeccabile e la tragica notte in cui fu accoltellato in un nightclub club di Boston), il cui raggiungimento non avrebbe potuto accadere senza l’arrivo a Boston di Kevin Garnett, suo grande amico fin dal l’adolescenza, e ovviamente al suo fianco sul palco della Hall of Fame.

Non si può non chiudere che con la celebre battuta di Jack Nicholson, nel film “Codice d’Onore”: “You can’t handle the Truth!!!”

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