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DeMar DeRozan: Straight Outta Compton

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È l’uomo del momento nella squadra del momento: DeMar DeRozan a trentadue anni si sta prendendo le luci della ribalta nei nuovi Chicago Bulls ed è il giusto epilogo di un biennio che lo ha visto passare dall’élite NBA ai margini della free agency. Un percorso cominciato nelle strade di Compton.


Straight Outta Compton

Compton, contea di Los Angeles, California, è nota per essere una delle città col più alto tasso di criminalità in tutti gli Stati Uniti. Unirsi ad una gang in quell’ambiente non è l’eccezione ma la regola, soprattutto dopo che le piccole bande sono diventate organizzazioni a tutti gli effetti. Il fascino dei soldi facili offerti da questo tipo di attività è alto per tanti ma non per DeMar: lui ha già perso molti familiari per sparatorie improvvise vicino casa e come tanti giovani in cerca di una strada si dedica anima e corpo alla pallacanestro, supportato al massimo dai suoi genitori. A 11 anni è già un prospetto di grande interesse per i principali licei della contea e dell’intero stato, ma al momento della scelta decide di rimanere a casa, a Compton. La paura di allontanarsi è tanta, per quanto la cosa sia paradossale: di solito chi vive lì ha più paura a rimanere.

Da prospetto liceale, DeRozan passa ad essere un oggetto del desiderio di molti college grazie ai risultati costanti messi in cascina durante il quadriennio di High School: tiene una media complessiva di 25.1 punti a partita (con un picco di 29.2 il suo ultimo anno), 8.1 rimbalzi, 3.0 assist e 3.2 palle rubate, porta Compton ad un record di 26 vittorie e 6 sconfitte e vince il campionato della Southern California, di cui viene eletto MVP. Da lì resta solo decidere in quale università iscriversi per tentare il salto nei grandi.

Opta per la University of Southern California. Gli NWA avevano dato un significato diverso a Straight Outta Compton, ma DeMar segue un percorso diverso: Compton è il punto di partenza, la USC la rampa di lancio verso qualcosa di più grande. Qui, nel suo unico anno, guida i Trojans alla vittoria del Pac-10, di cui è di nuovo nominato miglior giocatore e All-Team, e porta Southern California all’NCAA Division I come decima classificata. Con i compagni di squadra tra cui Nikola Vucevic, ritrovato anni dopo proprio ai Bulls, supera il primo turno ma termina la sua corsa contro i Michigan State Spartans di un giovane Draymond Green: chiude con 18 punti, 5 rimbalzi, 2 assist e la sicurezza di una chiamata alta al Draft NBA del 2009. La famiglia è sempre con lui, lo segue, lo incoraggia a perseguire il suo sogno al meglio e non gli fa mai mancare il sostegno. Soprattutto adesso nel momento del passo più grande.

DeMar DeRozan da Compton alla USC

“With the ninth pick….”

“Con la nona scelta i Toronto Raptors selezionano DeMar DeRozan, dall’Università di South Carolina”. In quella classe ci sono stelle assolute (sei All-Star nelle prime diciannove scelte, due MVP come Steph Curry e James Harden), ma il ragazzo di Compton riesce comunque a ritagliarsi una posizione nella Top10. Il figlio della California, lo stato del caldo, del sole, delle spiagge, si trova immediatamente traslato nel freddo nord del Canada, addirittura senza un passaporto fino a pochi giorni prima del Draft, tanta era la voglia di rimanere nei dintorni di casa. I Raptors vengono da una stagione disastrosa, tredicesimi nella Conference con un record negativo e con un roster decisamente sotto quelli delle squadre ritenute valide contender al titolo. Il primo anno non regala niente di entusiasmante a DeRozan: un minutaggio non eccessivo riduce la media a 8.6 punti, 2.9 rimbalzi e 0.7 assist. È il 2010 che vede finalmente la consacrazione a talento, soprattutto nell’attacco al ferro e nello scoring dalla media distanza: i minuti salgono da 21 a 34, i punti da 8 a 17 e tutte le statistiche crescono di pari passo con l’esperienza del giocatore e il suo maggiore impiego.

Da qui in avanti è un crescendo più individuale che collettivo. La squadra ancora non è all’altezza delle Big e, anche se DeMar continua a migliorare sempre di più, i Raptors non vedono la luce in fondo al tunnel. I Playoff sono ancora lontani, con Chris Bosh, fino ad allora uomo franchigia, che se n’è andato a Miami per costruire un superteam con LeBron James e Dwyane Wade. Bisogna aspettare il 2012 perché ci sia una svolta effettiva.

Da Houston arriva Kyle Lowry, play versatile sui due fronti, ottimo tiratore e passatore, e basta ancora un anno nei bassifondi per trovare la giusta chimica di squadra. I due stringono una salda amicizia e il risultato è esplosivo: nella stagione 2013-14 Toronto passa da decima nella Eastern a terza assoluta con un record di 48-34, il migliore nella storia della franchigia fino ad allora. La carriera di DeRozan va di pari passo: arriva la prima convocazione all’All-Star Game, registra il massimo in carriera in tutte le statistiche (22.7 punti, 4.3 rimbalzi e 4.0 assist), a fine stagione viene convocato dal Team USA con cui vince l’oro al Mondiale. Senza dimenticare la specializzazione nel tiro dal mid-range, che diventerà il suo marchio di fabbrica nelle stagioni a venire.
Il seguito è solo un crescendo: arriveranno altre tre inclusioni nella Gara delle Stelle (una da titolare nel 2018), tre riconoscimenti negli All-NBA Team e un totale di cinque apparizioni consecutive ai playoff. La stagione 2016-17 lo vede anche raggiungere il suo picco più alto in termini realizzativi con 27.3 punti ad allacciata di scarpe.

Ma nonostante DeMar sia ormai a tutti gli effetti l’uomo franchigia e il go-to-guy dei Raptors, il massimo risultato che ottiene in post-season è la finale di Conference del 2016 persa contro i Cavaliers futuri campioni NBA. Toronto si mantiene per cinque anni di fila nelle prime quattro posizioni della Eastern, nel 2017-18 raggiunge addirittura il primo posto dopo aver riscritto il record di squadra con 59 vittorie e 23 sconfitte, ma niente di tutto questo basta per superare lo scoglio di Cleveland e di un LeBron James in missione per riportare un titolo in Ohio. Per questo motivo Masai Ujiri, General Manager dei canadesi, decide che i servigi del beniamino di casa non sono più richiesti.


DeMar DeRozan, lo Sperone

Agli albori della stagione 2018-19 DeMar DeRozan approda ai San Antonio Spurs in uno scambio tutt’altro che gradito al californiano. Ricordiamoci che si sta parlando di un recordman nella storia della franchigia dell’Ontario, il miglior realizzatore in assoluto con 13.296 punti e il maggior numero di partite giocate, 675. Non solo, il Canada lo ha abbracciato da rookie regalandogli la prima esperienza in una squadra NBA, lo ha coccolato e vezzeggiato come un principe per quasi dieci anni. È diventata la casa lontano da casa. In un’intervista molto recente, il prodotto di USC ha raccontato la vicenda in un faccia a faccia con Draymond Green, analizzando le sensazioni provate una volta ricevuto il messaggio di Ujiri:

“Mi ha fatto male, malissimo. La gente non si rende conto di quanto ho dato, di quanto ho parlato col coach, coi miei compagni per costruire quello che abbiamo costruito. Era per i tifosi e per il basket. Con Masai avevamo parlato del rinnovo e due giorni dopo è arrivata la chiamata: ero al cinema, quando sono uscito ci siamo risentiti e mi ha detto ‘Ok, ti abbiamo scambiato con San Antonio’. Sono sceso dalla macchina e sono stato fermo davanti ad un Del Taco per due ore”

DeRozan deve far fronte ad un trasferimento non voluto, come tanti prima e dopo di lui. Deve guardare i suoi Raptors, i suoi compagni e amici, vincere il titolo a fine anno guidati da Kawhi Leonard, il campione per cui è stato scaricato. Non che lui intanto non si dia da fare: con gli Spurs raggiunge il settimo posto della Western Conference, mantenendo tra le più alte medie della sua carriera in rimbalzi e assist (6.0 e 6.2) e facendo più affidamento sul gruppo che sulle sue doti personali, seppur mantenendo una media superiore ai 20 punti. Sarà l’unica postseason che vedrà con la maglia nero-argento.

DeMar non è sereno, non è felice, ed emergono così quelli che sono i problemi legati ad una carriera nel basket professionistico. Mette in evidenza il tema della salute mentale, di come la pressione tocchi sensibilmente i giocatori nonostante molti esterni chiudano il discorso con la semplicistica visione riassumibile nello “Shut up and dribble“: “Zitto e gioca, sei pagato milioni, sicuramente non hai problemi”. Lui, insieme ad altri colleghi, mostra invece un lato diverso dagli aspetti positivi come fama e guadagno. Il triennio con San Antonio e un coach supportivo come Gregg Popovich lo aiutano in questo senso, anche se sul parquet appare lontano dal giocatore visto a Toronto.

La mancanza di equilibrio si fa sentire, le prestazioni calano rispetto ai suoi precedenti e nel febbraio 2021 a tutto questo si aggiunge anche la perdita del padre. Frank DeRozan, già malato da tempo, lascia un vuoto incolmabile in DeMar, che ha sempre approfittato delle pause tra le varie partite per tornare a casa a trovarlo. Il colpo è forte e sembra lasciare strascichi profondi. Agli albori della free agency dell’estate scorsa arriva non più da pezzo pregiato, ma da oggetto del mistero in cerca di una sistemazione.


Windy City

Lakers? Clippers? Sono queste le prime due opzioni che si affacciano alla finestra di DeRozan, forti della motivazione più importante per lui: il cuore. Giocare di nuovo vicino a casa sarebbe l’ideale ed entrambe le squadre offrono progetti stimolanti. Il mercato però impazza e i gialloviola firmano Russell Westbrook mentre i cugini decidono di non muovere molti giocatori e in entrata arrivano solo Eric Bledsoe e Justise Winslow. Quattro giorni dopo la blockbuster trade per il numero zero dei Wizards arriva la news: DeMar DeRozan ha firmato un triennale da 85 milioni con i Chicago Bulls. La franchigia della Città del Vento ha messo sotto contratto anche Lonzo Ball, Alex Caruso, Derrick Jones Jr. e Troy Brown. Del core della stagione 2020-21 sono partiti Markkanen e Young, pedine sacrificabili nel grande disegno del front office che può quindi schierare un quintetto di assoluto prestigio e una panchina di tutto rispetto. DeRozan arriva come firma illustre ma con tanti punti di domanda intorno: si integrerà? Sarà in condizione? Riuscirà a coesistere coi compagni?
Bleacher Report in un articolo sulle peggiori firme della free agency aveva messo lui al primo posto per via dell’età, della condizione atletica e mentale, e ricordando il pesante contratto.

Le risposte sul campo non ci hanno messo molto ad arrivare. Ad oggi i Bulls sono la terza forza della Eastern Conference, con alle spalle vittorie importanti contro Celtics, Nets, Jazz e in back-to-back contro le squadre di casa per DeMar, Clippers e Lakers. Giocare a Los Angeles senza il padre è stata un’emozione forte per lui, emozione che però non gli ha fatto tremare la mano, anzi, ne ha concentrato le energie: 38 punti contro i gialloviola e 35 contro i cugini meno blasonati. Al di là dei risultati di squadra, il ragazzo di Compton sta viaggiando a 26.6 punti, 5.3 rimbalzi e 4.2 assist, tirando con il 51% dal campo e il 37% da tre punti (massimo in carriera). L’Effective FG% (una media ponderata tra il valore dei tiri da due e da tre punti) è il più alto in carriera. Attualmente è il quinto miglior marcatore della NBA, ottavo per Efficency Rating, primo per tiri liberi tentati.

E la parte più importante, quella pesantemente criticata da molti addetti ai lavori, è il fit coi compagni. I Bulls giocano come se fossero insieme da anni, si intendono a meraviglia su entrambi i lati del campo e la rinnovata verve offensiva di DeRozan non va a cozzare con la produttività della stella di casa, Zach Lavine, né degli altri compagni. Air Zach ha infatti a referto 25.9 punti di media, appena un punto sotto il numero 11. Le gerarchie non sembrano importanti in questa squadra, dove ognuno è chiamato solo a fare del suo meglio e dare il massimo. E pare che il massimo di ognuno di loro equivalga ad un basket divertente, corale ed estremamente efficace.

DeMar DeRozan è arrivato a Chicago con l’etichetta di giocatore bollito, in cerca di un ultimo contratto per svernare e con poco da offrire. È arrivato quasi in sordina, come se i Bulls avessero firmato un giocatore qualsiasi e non un quattro volte All-Star. È arrivato con la sensazione che non ci fosse spazio effettivo per lui, che fosse solo una scommessa azzardata. Da giocatore cresciuto in un ambiente difficile non ci ha messo molto a scrollarsi di dosso critiche e scetticismi: lo ha fatto come sempre, buttandosi a testa bassa sul lavoro e sul miglioramento del proprio gioco, mettendosi sì al servizio dei compagni, ma prendendosi più di una responsabilità nei momenti delicati. Lo ha fatto come l’MVP del Pac-10, come la nona scelta al Draft, come un recordman dei Raptors, ma soprattutto come il ragazzo arrivato “Straight Outta Compton”.




Articolo a cura di Gianluca Bortolomai

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