Focus NBA

2015/2016 – La stagione perfetta

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Nella gloriosa storia della NBA ci sono stagioni diverse dalle altre, annate che verranno ricordate in eterno. L’esempio negativo è indubbiamente il 2019/20, interrotto dall’emergenza COVID e concluso nel campus di Orlando a quasi un anno di distanza dalla prima palla a due. Per motivi diversi, dell’annata 1961/62 si parla ancora oggi. E’ la stagione dei record, dai 100 punti (ma anche 50.4 a partita) di Wilt Chamberlain alla tripla-doppia di media di Oscar Robertson.
In tempi molto più recenti, però, si è giocata la “stagione perfetta”. Un impeccabile intreccio di personaggi ed eventi ha reso quella 2015/2016 la miglior stagione della storia contemporanea. Ripercorriamone i passaggi salienti.


73-9

13 aprile 2016: con 73 vittorie in regular season, i Golden State Warriors superano il record dei Chicago Bulls 1995/1996

La settantesima stagione della storia NBA si apre con la consegna degli anelli ai Golden State Warriors. Pochi mesi prima, la squadra di coach Steve Kerr e del Finals MVP Andre Iguodala ha superato i malconci Cleveland Cavaliers, privi degli infortunati Kyrie Irving e Kevin Love. Alla vigilia della stagione 2015/2016, in molti si chiedono: Golden State è in grado di confermarsi ad alti livelli, oppure la loro vittoria è stata frutto di coincidenze favorevoli? La risposta dei californiani non si fa attendere.

I Warriors vincono le prime 24 partite stagionali, rifilando 50 punti di scarto ai Memphis Grizzlies e 34 ai Los Angeles Lakers. Sono poi, il 12 dicembre, i Milwaukee Bucks dell’emergente Giannis Antetokounmpo ad interrompere quella che è già diventata la miglior partenza nella storia delle major leagues statunitensi. Ma l’inarrestabile corsa di Golden State riprende subito. In panchina non c’è coach Kerr, alle prese con dei gravi problemi alla schiena, bensì l’assistente Luke Walton, che viene nominato Allenatore del Mese per la Western Conference nel periodo ottobre-novembre. A gennaio, l’ex analista di TNT riprende il suo posto, ma la musica non cambia: i Dubs macinano un avversario dopo l’altro. Ben presto, la NBA si accorge di assistere alla storia in movimento. Il successo contro Memphis del 13 aprile 2016 fa crollare il record dei Chicago Bulls 1995/1996: con 73 vittorie (e 9 sconfitte), i Warriors consegnano ai posteri la migliore regular season di sempre. E’ la squadra di Steve Kerr, eletto inevitabilmente Coach Of the Year, degli All-Star Klay Thompson e Draymond Green, di Andre Iguodala, Harrison Barnes, Andrew Bogut e Shaun Livingston. E’ la squadra di Stephen Curry.

Nella stagione 2015/2016, il numero 30 fa impazzire la lega, spingendo pure qualcuno ad inserirlo nel sempiterno dibattito sul più grande giocatore mai esistito. Chiude come miglior realizzatore NBA a 30.1 punti di media, tira con il 50% dal campo, il 45% da tre punti e il 91% dalla lunetta, vince la classifica dei recuperi (2.1) e polverizza il record di triple a bersaglio – da lui stesso stabilito – settando l’asticella a quota 402. La conseguenza è ineluttabile: Steph porta a casa il secondo trofeo di MVP consecutivo, il primo nella storia NBA assegnato all’unanimità.


La fine di un’era

Nel 2016 finiscono le carriere di Kevin Garnett, Kobe Bryant e Tim Duncan

La stagione 2015/2016 vede calare il sipario sulla carriera di alcune leggende NBA. Gli addii di Kevin Garnett e Tim Duncan avvengono all’insegna del basso profilo. KG conclude il suo percorso laddove tutto era iniziato: ai Minnesota Timberwolves, dove fa da mentore al Rookie Of The Year Karl-Anthony Towns. The Big Ticket avrebbe un’opzione anche per il 2016/2017, ma i continui dolori alle ginocchia gli suggeriscono di appendere la maglia numero 21 al chiodo, in attesa che qualcuno – con colpevole ritardo – decida di fissarla al soffitto del Target Center.

Lo stesso numero 21 che, invece, troneggia fiero sull’AT&T Center di San Antonio. Tim Duncan, il pilastro della dinastia Spurs, saluta la NBA senza troppi proclami, fedele al suo stile. Già da qualche anno il gigante caraibico appare in condizioni fisiche precarie, ma la sua leadership e la sua classe sono imprescindibili per la corazzata di Gregg Popovich. Dopo l’eliminazione al secondo turno dei playoff, di cui riparleremo tra poco, sul suo futuro aleggiano forti dubbi. Il 28 giugno 2016 esercita l’opzione sull’ultimo anno di contratto, salvo poi annunciare il ritiro l’11 luglio.

Il 2015/2016 è l’ultima stagione anche per Chris Bosh, costretto a fermarsi a causa della recidiva comparsa di coaguli di sangue nei polmoni, ma l’addio che rimarrà impresso a fuoco nella memoria di tutti è un altro.

Il 24 novembre 2015, dopo la ripassata subita dai suoi Lakers per mano dei Warriors, Kobe Bryant capisce che il suo tempo sul parquet sta finendo. Per i gialloviola è la dodicesima sconfitta nei primi quattordici incontri e il Black Mamba ha segnato appena quattro punti in venticinque minuti, tirando con un grottesco 1 su 14 dal campo. Le prestazioni in calo e un fisico martoriato dagli innumerevoli infortuni lo spingono alla sofferta decisione. Il 29 novembre, sul sito The Players’ Tribune compare “Dear Basketball”, la lettera con cui Kobe annuncia di volersi ritirare al termine della stagione. Il suo tour d’addio è l’unico motivo per seguire i disastrosi Lakers. Tutte le arene NBA applaudono e omaggiano la superstar in maglia numero 24. Il 13 aprile 2016, mentre Golden State centra la settantatreesima vittoria, lo star system hollywoodiano e il mondo dello sport si radunano allo Staples Center per celebrare l’ultima partita di quella che ormai è un’icona globale. Kobe Bryant ringrazia tutti a modo suo: con una prova da 60 punti guida i suoi alla vittoria in rimonta contro gli Utah Jazz. Poco importa che Utah sia già matematicamente esclusa dai playoff e che Kobe tiri tutto ciò che gli passa fra le mani (chiude con un curioso 22 su 50 dal campo). L’ultimo atto della stella fra le stelle non può che chiudersi così, con quel “Mamba out” e con il microfono lasciato cadere sul parquet.


Il duello Gordon – LaVine

La finale dello Slam Dunk Contest 2016: uno spettacolo indimenticabile

L’All-Star Weekend 2016 è il primo ad essere ospitato fuori dai confini statunitensi. La kermesse di Toronto è attesa soprattutto come la festa di addio per Kobe Bryant, che infatti viene omaggiato dagli storici compagni e avversari sul campo e da Magic Johnson nel prepartita. Ma la vera perla di quell’edizione va in scena il sabato.

Dopo che Klay Thompson ha strappato il trofeo del Three Point Contest al campione in carica, nonché suo compagno di squadra, Stephen Curry, il palcoscenico è pronto per la gara delle schiacciate. Andre Drummond e Will Barton sono delle semplici comparse che lasciano presto i riflettori ai grandi favoriti per la vittoria: Zach LaVine dei Minnesota Timberwolves, vincitore dell’edizione 2015 e fresco MVP del Rising Stars Challenge, e Aaron Gordon degli Orlando Magic. I due mettono in scena uno spettacolo indimenticabile, che dà nuovo lustro alla ‘competizione’ e fa scomodare paragoni con le sfide degli Anni ’80 tra Michael Jordan e Dominique Wilkins e con le evoluzioni di Vince Carter nel 2000. LaVine e Gordon lasciano a bocca aperta l’Air Canada Centre e il mondo intero con le loro acrobazie, finché il 47/50 dei giudici non assegna la vittoria alla guardia dei T’Wolves.


Grandi avversari

Spurs e Thunder si presentano ai playoff 2016 al loro meglio

I playoff 2016 sottolineano il profondo divario tra le due Conference. A Est, i Cleveland Cavaliers passeggiano quasi indisturbati: dopo aver piallato i Detroit Pistons del trio Andre Drummond – Reggie Jackson – Tobias Harris e gli Atlanta Hawks di coach Mike Budenholzer, affrontano i Toronto Raptors, giunti alle prime Conference Finals della loro storia. LeBron James e compagni si portano agevolmente sul 2-0, ma in Canada chiudono il gas e consentono agli avversari di pareggiare la serie. La pratica si chiude però senza particolare storia in Ohio: 4-2 e Cavs in finale NBA.

Nella divisione occidentale, la situazione cambia radicalmente. Sulla carta, la Western Conference 2015/16 si presentava come la più competitiva degli ultimi anni, con almeno cinque squadre che potevano credibilmente ambire al titolo. I primi ad auto-escludersi dalla corsa sono gli Houston Rickets. La coppia James Harden – Dwight Howard non rende quanto sperato, coach Kevin McHale viene rimpiazzato da J.B. Bickerstaff dopo undici partite e i Rockets acciuffano in extremis l’ottavo piazzamento. Al primo turno, contro gli imbattibili Warriors, non c’è storia: 4-1 per Curry e soci. Houston si prepara a cambiare pagina (in estate, la panchina viene affidata a Mike D’Antoni), mentre Golden State avanza al turno successivo. Durante la prima partita contro Harden e compagni però, Curry scivola su una chiazza di sudore e riporta un infortunio al ginocchio destro. Dopo aver saltato i due incontri successivi, il problema si riaggrava in gara-4 e il numero 30 è costretto a rientrare ai box. Quando torna in campo, a metà del secondo round, non è più il dominatore visto in regular season.

Tra i grandi favoriti dai pronostici ci sono anche i Los Angeles Clippers versione “Lob City”, reduci dalla bruciante eliminazione dell’anno precedente. Durante gara-4 della serie contro i Portland Trail Blazers, però, si infortunano contemporaneamente Chris Paul e Blake Griffin: i sogni di gloria dei Clippers si infrangono per l’ennesima volta. I Blazers di Damian Lillard e del Most Improved Player Of the Year C.J. McCollum si arrenderanno al turno successivo – le semifinali di Conference – contro Golden State.

Gli avversari più pericolosi, per gli Warriors, si trovano dall’altra parte del tabellone. I San Antonio Spurs sono ancora guidati dai Big Three Tim Duncan, Manu Ginobili e Tony Parker, affiancati dal Defensive Player Of The Year (secondo nella MVP run) Kawhi Leonard e dal neoacquisto LaMarcus Aldridge. Gli Oklahoma City Thunder del nuovo coach Billy Donovan, sui quali pende la spada di Damocle del contratto in scadenza di Kevin Durant, si presentano invece ai playoff con il miglior organico della loro storia. KD e Russell Westbrook sono all’apice delle rispettive carriere e, a differenza degli anni precedenti, sono entrambi al massimo della forma. Lo specialista difensivo Andre Roberson e il giovane realizzatore Dion Waiters si dividono i minuti da guardia, mentre nel reparto lunghi ruotano Serge Ibaka, Steven Adams ed Enes Kanter. San Antonio e OKC spazzano via Memphis e Dallas al primo turno, poi si danno battaglia in un secondo round di altissimo livello. Quando i Thunder danno lo sprint finale, trascinati dalle prove spaziali di Durant e Westbrook, due cose appaiono chiare: il ciclo degli Spurs è al tramonto e OKC può dare filo da torcere agli incerottati Warriors.

In effetti, dopo le prime due gare equilibrate, Durant e compagni si impossessano delle Western Conference Finals. Quando la serie si sposta alla Chesapeake Energy Arena Golden State viene cancellata dal campo: -28 in gara-3, +24 in gara-4 e i Thunder volano sul 3-1. Sull’orlo del baratro, i campioni in carica tirano fuori gli artigli. Portano a casa la quinta partita nonostante i 71 punti combinati della coppia Durant-Westbrook. OKC non riesce a tramortire definitivamente gli avversari e paga carissima ogni esitazione. Gara-6 è il capolavoro di Klay Thompson, autore di 41 punti con 11 triple a bersaglio, record ogni epoca nei playoff. La partita decisiva, alla Oracle Arena, vede prevalere Curry e compagni, che continuano così la loro corsa verso il repeat. L’avventura di Kevin Durant nell’Oklahoma, invece, è giunta al capolinea.


Cleveland, this is for you!

Al termine di un’epica rimonta, LeBron James guida i Cavs al loro primo titolo NBA

Le NBA Finals 2016 sono il perfetto epilogo di una stagione irripetibile. A dire il vero, dopo le prime due partite sembra non esserci storia: Golden State vince di 15 lunghezze gara-1 grazie a un insospettabile Shaun Livingston, autore di 20 punti, mentre l’incontro successivo termina con un eloquente +33 per i padroni di casa, che promettono di tornare a Oakland solo per la parata celebrativa.

A Cleveland però il vento cambia. A far svoltare la serie non è tanto il +30 Cavs di gara-3, propiziato dai 62 punti della coppia LeBron James – Kyrie Irving, bensì il colpo basso inferto da Draymond Green al Re nella partita successiva, sanzionato come flagrant foul 1. Essendo il quarto ‘antisportivo’ dei suoi playoff, il numero 23 degli Warriors viene squalificato per una partita. Per Golden State, che in gara-5 perde anche Andrew Bogut per l’ennesimo infortunio della sua carriera, è l’inizio del tracollo.

Si torna sulla Baia con i californiani avanti 3-1, ma quell’ultima vittoria non arriva più. LeBron e Kyrie riportano la serie in Ohio con 41 punti a testa. James in gara-6 ne aggiunge altri 41, di cui 18 consecutivi, rimandando ogni sentenza alla partita delle partite. Quella gara-7 è ormai scolpita nella pietra: il risultato in equilibrio, la leggendaria stoppata di LeBron su Iguodala, la tripla di Kyrie Irving, la difesa di Kevin Love su Curry e il “Cleveland, this is for you!” urlato da King James al microfono di Doris Burke con il trofeo di Finals MVP tra le mani. Per ciò che è stata quella stagione però, quel “This is for you!” non lo urla solo LeBron alla città che ha reso immortale. Lo gridano anche Kyrie, Steph, Klay, KD, Russell, Kawhi, Zach, Aaron, Tim, KG e Kobe.

E lo gridano a tutti gli appassionati NBA.





Articolo a cura di Stefano Belli

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